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GIUGNO 2019 / Mixer 95 totale di poco superiore a 310.000) che fatturano più di 10 milioni sono circa un centinaio, volume da cui provieneanche lamaggior partedella cifradell’export (che attenzione, è un dato aggregato tra vino sfuso e in bottiglia) il quale si deve a circa 2.000 imprese. DENOMINAZIONI E VARIETALI In un quadro composto da piccole o micro imprese, quindi, il mercato è governato dalle grandi coopera- tive, che da sole valgono circa il 40% del fatturato e il 60%dellaproduzione. Passandoai dati incoraggianti, invece, c’è una sostanziale tenuta delle varie DOP e IGP sianelmercato internoche inquelloestero, segno evidente che le denominazioni di origine controllata mantengonoun’evidenteappetibilità. La scarsaquota detenuta dai varietali, invece, sia nel mercato interno che in quello estero, delinea già una possibilità di sviluppo per il futuro. A mio avviso infatti nei prossi- mi anni sarà vitale concentrare molta attenzione sui territoriali. Tutto inizia da una cura diversa del lavoro in campagna. La progressiva diffusione del biologico (al di là degli equivoci e degli estremismi, quello che mi interessa rilevareè l’approcciodiverso, piùevoluto, allepratiche di vigna), cheaparte rallentamenti episodici continue- rà a progredire sia in Italia che in Europa, porta con sé un’attenzione diversa alla fratellanza, da sempre esistente, tra una vite e una varietà e il territorio dove questa cresce. La natura, in questo come in altro, a riguardo è implacabile. Il vino appartiene al territorio, sta all’uomo cercaredi forzarequantomenopossibile un processo certo non naturale, ma vecchio quanto il mondo, per fare in modo che il prodotto ottenuto sia quanto più simile, in senso evocativo, al territorio che lo ha originato. PRATICHE REGIONALI Per questo trovo encomiabile la nuova attenzione che si sta dedicando in Sicilia, per esempio, ai vari Catarratto, Grillo, Carricante, trasformati in vini di rilevanza mondiale, in Puglia all’Aglianico, in Calabria al Gaglioppo, in Campania alle varietà territoriali ma dimenticate da decenni, come Biancolella, Fenile, Gi- nestra, o ancora in Trentino con Nosiola e Schiava e anche – perché no? – nella mia Emilia-Romagna con i vari Trebbiano, Famoso, Pagadebit, Burson. Gli esempi virtuosi sono innumerevoli, ma in que- sto contesto fa impressione soprattutto il caso del- la riscoperta della Nas’cetta, vitigno piemontese a bacca bianca (sacrificato, per la sua complessità di coltivazione, alla gloria del vitigno italiano più famo- so nel mondo, ovverosia il Nebbiolo) ora affidato ad una decina di illuminati produttori, i cui risultati sono già notevolissimi. A mio avviso il futuro del vi- no italiano passa soprattutto da questo, valorizzare (e rendere un valore aggiunto anche per il merca- to estero) l’incredibile varietà ampelologica di una nazione benedetta dagli dèi enoici.
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