pubblici esercizi
24 Settembre 2012Le micro imprese sono la struttura portante del sistema produttivo italiano e lo sono ancor di più in alcuni comparti del terziario e del turismo. Solo per dare conto delle dimensioni dei fenomeni di cui parliamo è bene ricordare che il 95% delle imprese italiane ha meno di dieci addetti, assorbe il 48% dell’occupazione e genera il 30% del valore aggiunto. Nella ristorazione le micro-imprese hanno un’identica incidenza sullo stock di imprese ma arrivano ad assorbire il 70% dell’occupazione del settore generando il 55% del valore aggiunto.
è difficile, dati questi presupposti, che il sistema possa cambiare scala seguendo consigli e raccomandazioni dei tanti che ritengono che “piccolo è bello ma grande è meglio”.
CONDIVIDERE IL BUSINESS
Occorre riconoscere, infatti, che la flessibilità delle piccole aziende sconta un prezzo importante in termini di capacità produttiva, finanziaria, commerciale e d’innovazione delle imprese più grandi. Nella ristorazione, ad esempio, il valore aggiunto per addetto è pari a 12mila euro nelle micro-imprese ed a 24mila nelle grandi. Gli investimenti vanno da 2.500 euro a 2 milioni di euro (dati riferiti al 2009).
Ma i sistemi produttivi non si modificano a colpi di bacchetta magica o sulla base di astratti dibattiti a favore o contro i piccoli imprenditori. Da tempo si ragiona sulla necessità di favorire, nel nostro Paese, l’aggregazione di imprese con l’obiettivo di coniugare la flessibilità della piccola impresa con le economie di scala della grande.
Sono stati spesi fiumi di parole sull’individualismo del piccolo imprenditore mettendo l’accento sugli aspetti psicologici, ovvero sostenendo che in questo ambito vanno ricercate le cause della loro forte e diffusa resistenza a mettersi in relazione con altri. Senza considerare, tuttavia, che questi imprenditori ogni giorno si confrontano con gli altri, sia che si chiamino fornitori sia che si chiamino clienti. Allora la questione è forse un’altra.
Per i piccoli imprenditori l’azienda non è soltanto il luogo dove investire il proprio denaro ma è anche, anzi soprattutto, una parte importante della propria storia e della propria vita. Condividere il business con altri vuol dire condividere questa storia e questa vita. Sono queste le ragioni della resistenza a mettersi insieme.
Qualche tempo fa Renato Mannheimer ha presentato i risultati di una ricerca che faceva il punto sul gradimento degli imprenditori rispetto all’ultima nata in tema di alleanze tra imprese: la rete. Un quarto delle aziende dichiarava di non saper indicare né i vantaggi né gli svantaggi del fare rete; l’ottanta percento degli intervistati si diceva ‘per nulla interessato’ o ‘poco interessato’ a prendere in considerazione l’ipotesi di mettersi in rete.
Risultati attesi che, tuttavia, non devono far indietreggiare dalla necessità di esplorare tutti i percorsi utili a fare in modo che le imprese collaborino nei modi e nelle forme più varie. In effetti concetti e definizioni si sono modificati nel tempo: ati, consorzi, filiere, reti sono concept diversi ma tutti orientati a far collaborare le imprese, specialmente se piccole e medie.
Una sfida difficile a cui non giova l’assenza di esempi virtuosi nei quali il piccolo imprenditore possa riconoscersi al di là di tante parole. Eppure ci sono numerosi ambiti in cui le piccole imprese si muovono nella logica della rete. Si pensi alla realizzazione di un marchio con il quale si propongono al mercato servizi nuovi o si ridefinisce, in logica di sistema, ciò che imprese diverse hanno in comune.
I marchi “Ristorante Tipico” o “Bollino Blu” messi a punto dalla Fipe sono, di fatto, reti di imprese sostanziali. Si tratta di più imprese che si mettono in rete per migliorare la propria competitività offrendo ai consumatori un prodotto “nuovo”.
La costruzione di relazioni tra imprese finalizzate ad introdurre l’innovazione nel campo del marketing, della comunicazione, dell’approvvigionamento delle materie prime ma anche per migliorare la gestione d’impresa rientrano a pieno titolo nella logica della rete. Insomma le opportunità per “mettersi insieme” restando indipendenti non mancano.
Esiste solo (si fa per dire) un problema organizzativo per passare dalle parole ai fatti ma anche su questo terreno saranno d’aiuto le circostanze che per certi aspetti imporranno percorsi obbligati. Il riferimento è alle opportunità offerte da alcuni finanziamenti europei, nazionali e regionali proprio sulle reti d’impresa. L’ultimo nato è quello della regione Lombardia sulle reti d’impresa nel commercio, turismo e servizi che si è chiuso nel mese di luglio.
Sono stati presentati diversi progetti di cui daremo conto nei prossimi numeri del giornale per dimostrare che è possibile costruire reti di imprese anche nei settori del commercio, dei servizi e del turismo per migliorare capacità competitiva e livelli di servizio.
Definizione e caratteristiche delle reti
Il “contratto di rete” è stato introdotto con l’art.3 comma 4-ter e ss. del d.l. n.5/2009, (convertito con l. n.33/2009, successivamente modificato con l. n. 99/2009 e riformulato con d.l.n.78/2010 la cui legge di conversione è la n.122/2010). Il dettato normativo dell’art.3, in cui è inserita la disciplina del contratto di rete, ha ad oggetto i distretti produttivi e le reti d’impresa.
Per rete si intende il fenomeno economico e giuridico in cui più imprese, indipendenti, agiscono in modo coordinato, dando vita ad operazioni economiche ed organizzative diversificate ed in questo senso eterogenee.
Per quanto concerne i motivi e le esigenze che portano alla formazione di sistemi a rete:
• le reti possono nascere per effetto dello snellimento delle grandi organizzazioni integrate, che per ridurre costi ricorrono sempre più a forme di esternalizzazione delle lavorazioni, dei servizi, delle competenze, rivolgendosi a imprese e professionisti esterni;
• le reti si formano quando le imprese trovano i vantaggi del “mettersi in rete” per conseguire economie di scala e di specializzazione che ciascuna singola impresa non potrebbe conseguire;
• le reti sono considerate l’effetto diretto della globalizzazione, perché le imprese, che vogliono operare in nuovi mercati o che cercano nuovi clienti, si organizzano per gestire piattaforme di relazione sempre più complesse ed articolate.
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