12 Maggio 2017
La proposta di Scaa relativa alla redazione di un Manifesto del Caffè Espresso Italiano non ha mancato di suscitare reazioni nel mercato. Ecco il parere di Simone Pecora, Quality Control Manager presso Aziende Riunite Caffè Spa
Da operatore del settore, quale la sua opinione in merito alla necessità di istituire un Manifesto del caffè espresso italiano?
Non mi convince molto la terminologia usata ma non nego che il Cup of exellence possa essere integrato con un sistema di brewing analisys che valuti la modalità di estrazione. Per spiegare la mia posizione devo premettere che per analizzare una bevanda a base di caffè vi sono tre approcci. Quello tecnico, teso alla valutazione della conformità del prodotto, che si basa sulle componenti olfattive e di gusto scientificamente riconosciute: amaro, acido, sapido, dolce. Poi c’è l’approccio soggettivo che riguarda la sfera del bouquet espresso da ogni tipologia di caffé assieme ai giudizi personali sulla piacevolezza del prodotto estratto e dei suoi sentori. Infine abbiamo il terzo approccio commerciale, che “la fa da padrone” e che riguarda la domanda di mercato tra i torrefattori e il consumatore. Quest’ultimo non di rado preferisce prodotti che non esprimono rating di eccellenza. Pertanto, escluderei da un eventuale protocollo di analisi l’approccio soggettivo per la sua complessità.
Quale motivo la porta a non includere un aspetto che molti ritengono fondamentale?
I motivi sono diversi e attengono ad aspetti tecnologici, commerciali e culturali. Le nuove macchine per il caffè espresso infatti hanno tali capacità: da uno stesso prodotto modificando i settaggi è possibile ottenere dei caffè completamente differenti sotto il profilo organolettico. Sotto l’aspetto commerciale contano poi le tradizioni geografiche e le percezioni storiche del consumatore. Per esempio, in Libano, Grecia, Turchia e nei Paesi della ex Jugoslavia va per la maggiore la tipologia di caffè Rio Minas che in tutto il resto del mondo viene considerato difettoso. L’aspetto geografico è determinate anche per quanto riguarda la qualità e la composizione chimico-fisica dell’acqua, che cambia da luogo a luogo. Infine ogni torrefattore presenta differenti impianti di produzione e diverse tradizioni di manipolazione della materia prima, ossia di tostatura e macinatura. Si tratta di tradizioni che considero un valore e che, con un sistema di parametri restrittivi sulla qualità, verrebbero perse. Mi spiego: se per creare un prodotto usassi quattro caffè monorigine di qualità più elevata quali Jamaica blue mountain, Kopi Luwak, Hawaii e Jacu non otterrei una miscela di caffè dalla qualità eccelsa, ma solamente il caffè più costoso.
Allora quali parametri inserirebbe?
Premesso che questo sistema di analisi valuta le monorigini e non le miscele, si potrebbero introdurre parametri per la valutazione della crema in relazione alla sua componente visiva, alla sua intensità olfattiva e alla sua densità. Naturalmente potrebbe essere utile stabilire anche alcuni parametri di estrazione legati all’erogazione.
Non pensa che sia giusto apporre il risultati del Cup of Exellence sulle confezioni di caffè e magari il marchio Made in Italy?
Certo, indicare la provenienza aiuterebbe. Per il Cup of Exellence qualora si raggiunga il punteggio dell’eccellenza, sopra gli 87 punti su scala SCA; un risultato che spesso viene utilizzato come valida leva di marketing. Nella nostra azienda che ha 170 anni di storia siamo molto attenti alle tradizioni, perciò mi auspico di vedere manipolazioni del caffè sempre più vicine alla perfezione. È quanto ci richiedono ogni giorno i nostri clienti, il che rivela un mercato sempre più esigente di conoscenza del prodotto, delle sue origini e delle possibilità di lavorazione.
Il Manifesto dell’Espresso: la cruda realtà raccontata dagli importatori
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A cura di Matteo Cioffi
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