29 Dicembre 2018
La vanità è femmina? No, la vanità è chef. Sempre che sia questo il motivo per cui, quando appaiono nelle trasmissioni televisive o sono protagonisti di cooking show “dimenticano” spesso di indossare il copricapo simbolo di questa professione. E tanto più il cuoco dietro ai fornelli è un volto noto, tanto più è probabile che si presenti a capo scoperto. Recentemente il magazine on-line “Il fatto alimentare” ha pubblicato una serie di immagini di chef del momento, molti dei quali stellati, che – ritratti nelle loro cucine o in eventi speciali – non indossano la classica toque blanche, paragonandoli al recentemente scomparso Paul Bocuse, che invece nelle immagini disponibili in rete indossa sempre – fieramente – il copricapo bianco.
Sì, perché il cappello da cuoco ha un ruolo molto più importante, quello di garantire al consumatore che nulla di indesiderato finisca nel piatto. Indossarlo è indice di rispetto, non solo delle buone prassi igieniche, ma soprattutto dei propri avventori. Ma cosa chiede la legge? «L’igiene del personale di cucina e le regole di comportamento – spiega Roberta De Noia, tecnologa alimentare e consulente per diverse società di ristorazione in materia di Haccp - rientrano nei programmi di prerequisiti (PRP), definiti come condizioni e attività di base della sicurezza alimentare necessarie per mantenere un ambiente igienico».
Si richiama ai PRP anche nella recente comunicazione della commissione europea del 30-07-2016 C278/1, che riporta: “Le corrette prassi igieniche (GHP, ad esempio pulizia e disinfezione adeguate, igiene personale) e le buone prassi di fabbricazione (GMP, ad esempio dosaggio corretto degli ingredienti, temperatura di trasformazione adeguata), sono denominate nel loro insieme PRP”. «All’interno del piano di autocontrollo aziendale – prosegue la De Noia -vengono descritti i programmi di prerequisiti, pertanto viene indicato anche come viene garantito un utilizzo corretto della divisa da parte del personale operativo. Le norme descritte all’interno del piano di autocontrollo sono trattate anche durante i corsi di formazione e addestramento del personale e spesso sono rappresentate graficamente nell’ambito di istruzioni esposte all’interno degli spogliatoi».
Chiunque lavori all’interno di locali dove si manipolano alimenti è tenuto al rispetto scrupoloso di alcune regole fondamentali per prevenire le contaminazioni dei prodotti e garantire il livello più elevato possibile di igiene. Gli indumenti da lavoro sono preferibilmente di colore chiaro. «Talvolta – rileva la tecnologa - riscontriamo che le divise indossate dagli chef sono nere o di un colore scuro. Il Reg. CE 852/04 sull’igiene dei prodotti alimentari non specifica nulla in merito. D’altra parte, si tratta di buon senso o, per usare un termine tecnico, di buona prassi. Scegliere il bianco o comunque un colore chiaro è la migliore soluzione. In questi casi, infatti, lo stato di pulizia degli indumenti viene immediatamente evidenziato. La divisa non deve presentare bottoni o altri elementi che potrebbero staccarsi e costituire fonte di contaminazione fisica. Per lo stesso motivo non è consentito l’uso di anelli, bracciali…».
Altri riferimenti di legge sulla questione sono la 283 del 1962 e il decreto attuativo (n. 327 del 1980), secondo cui nei laboratori di preparazione degli alimenti e nelle industrie alimentari gli indumenti devono essere di colore chiaro e riguardo al copricapo precisa che deve contenere interamente la capigliatura. «Questa regola – sottolinea - vale sia per il personale femminile sia per quello maschile, indipendentemente che si tratti di un contesto di microimpresa, di mensa ospedaliera o di evento tipo cooking show. Le norme igieniche sono analoghe e indossare il copricapo rientra tra queste. L’operatore può ovviamente individuare diverse tipologie di copricapo e scegliere anche in funzione dell’occasione di utilizzo. Per una dimostrazione dal vivo possono rivelarsi più adatti, ad esempio, un berretto con visiera o un cappello a bandana. Mentre per lavorare “dietro le quinte” in cucina, un copricapo a retina, soprattutto per il personale con capelli lunghi, può essere l’opzione più pratica. L’uso di mascherine oronasali e dei guanti non è vincolante, ma frutto di una scelta aziendale sulla base della valutazione della specifica realtà in cui si opera».
Indossarlo deve essere un’abitudine
Cappello sì, cappello no? Capello sì, almeno per lo chef Luca Malacrida, Titolare della Squadra Nazionale APCI Chef Italia. «Io uso sempre il cappello – afferma – anche se avendo un problema di altezza (sono alto 1,87 cm) a volte preferisco usare quello piccolo, invece della classica toque. Nel ristorante dove lavoro e quando faccio dei servizi di catering indosso sempre un copricapo e lo impongo ai miei ragazzi. Pur con tutta l’attenzione che possiamo mettere nella preparazione di un piatto, un pelo o un capello può sempre finirci dentro. Va assolutamente evitato. Oltretutto è il nostro biglietto da visita, è emblematico della nostra professione».
E degli show televisivi in cui gli chef non indossano il cappello, che ne pensi?
In quelle occasioni sono più personaggi, che chef. Però in occasione di Cibus dove ho spignattato tutta la giornata davanti alle telecamere, io ho preferito tenere sempre il cappello, nonostante il grande caldo.
Si tratta allora di una questione di vanità..
Non solo, qualche volta anche di spocchia. Non si mette il cappello per affermare la propria superiorità. Ma il cuoco è nato con il cappello, fa parte della sua essenza, non solo per immagine, ma per pulizia e igiene personale. A mio avviso, uscire con il cappello alto dà al cliente un’immagine di professionalità e serietà che è essenziale nel nostro lavoro. Spesso riprendo i ragazzi della mia brigata perché vorrebbero evitare il cappello, ma io sono rigoroso.
In questo caso non si tratta di celebrità. Perché vorrebbero evitare il cappello? È fastidioso?
E’ questione di scarsa abitudine, a volte anche nelle scuole mi è capitato di vedere lavorare i futuri cuochi senza cappello. Secondo me i i giovani dovrebbero crescere professionalmente con la convinzione che il cappello è anzitutto una protezione per se stessi.
E del resto dell’abbigliamento, che ne pensi?
Sono rigido anche sulla giacca. Io la uso bianca e pretendo che i miei collaboratori facciano lo stesso. Ho visto colleghi tenere una giacca nera per tre o quattro servizi. Io cambio la mia, bianca, al termine di ogni servizio perché si macchia. Ed è bello presentarsi in bianco, come ci hanno insegnato i nostri grandi maestri Bocuse e Marchesi. Il cuoco deve essere bianco, perché questo colore dà il senso di pulizia, ordine, accuratezza.
Questi indumenti hanno anche una funzione “tecnica”?
Certo, servono a proteggerci. Se si spadella o si fanno brasature a fuoco vivace il cappello ripara la cute da schizzi bollenti e dal grasso volatile che altrimenti finirebbe sui capelli, impregnandoli. Protegge anche dal calore che si sprigiona dai forni perché oggi i cappelli sono realizzati con materiali particolari che isolano. Lo stesso vale per la giacca o la parannanza, il grembiule, che ormai non usa quasi più nessuno. Siamo diventati tutti chef da televisione, nessuno tocca più i piatti e allora la parannanza non serve. E invece è fondamentale per proteggere le gambe nel caso in cui una pentola si rovesci dai fornelli con tutto il suo bollente contenuto.
L’altra faccia della medaglia è quella dei commensali…
Bisogna metterci nei panni dei clienti, ci piacerebbe vedere un cuoco senza cappello o senza grembiule? Per questo io nello scegliere un collaboratore guardo sempre se porta la barba (se sì, deve essere curata) o gli orecchini. Ritengo che questi particolari diano l’impressione di ordine, accuratezza e pulizia che amo. Forse allora, per i cuochi hipster, ci vorrebbe anche il copribarba, oltre al cappello.
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