20 Agosto 2014
Con l’introduzione del contratto di somministrazione di attività lavorativa a tempo determinato, il legislatore del2003(nello specifico, all’art. 20 c.4 l. 276/2003) aveva innovato rispetto alla disciplina previgente, ammettendo il ricorso a questa tipologia di prestazione lavorativa “a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore”. Questa normazione aveva suscitato alcuni problemi interpretativi, dato che con essa si era verificato un mutamento della relazione tra l’attività temporanea ivi prevista e i contratti collettivi: se, infatti, nella precedente legislazione del 1997 era stabilito che la fornitura di lavoro temporaneo potesse essere impiegata anche “nei casi previsti dai contratti collettivi nazionali della categoria di appartenenza dell’impresa utilizzatrice, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi”, nel 2003 veniva riservata ai contratti collettivi soltanto la possibilità di individuare i limiti quantitativi di utilizzazione, nel rispetto di quanto sancito, a proposito del contratto a termine, dall’art.10 del d. lgs. 368/2001. In questo quadro di riferimento, la cui complessità è evidente, ci si poneva il problema di individuare se, ed entro quali limiti temporali, si potesse ritenere prorogata l’efficacia dei contratti col- lettivi già vigenti. A questo problema si può tuttavia soltanto accennare, segnalandone l’esistenza: infatti, ritenuta conclusa quella che veniva indicata come una fase di transizione, intercorrente cioè tra il predetto intervento del 2003 e il successivo decreto del Ministero per la necessaria autorizzazione alle agenzie del lavoro, emanato in data 2 luglio 2004, si è infine consolidata l’opinione secondo cui i contratti collettivi cui fare riferimento sarebbero stati quelli vigenti nel 2003.
Questa premessa, che non può spingersi oltre per evitare che questo approfondimento diventi un noioso susseguirsi di articoli di legge non necessariamente collegati tra loro in modo trasparente, ha lo scopo di arrivare a quella che è una delle riforme più discusse dell’attuale Governo: la redazione di quello che viene definito “Jobs Act”. Ora, anche a chi non sia un perfetto conoscitore dell’inglese, la terminologia usata dagli esponenti del Governo, e ripresa dalla stampa, può senz’altro evocare l’idea di un documento finalizzato a regolare il lavoro. L’espressione come tale pare essere in realtà estranea alla tradizione giuridica anglosassone ed è probabilmente giunta a noi attraverso la mediazione americana: infatti, il sito della Casa Bianca dà notizia di un provvedimento del Presidente Obama, chiamato appunto “Jobs Act’, emanato nel 2011 e descritto come “il piano del Presidente Obama per creare posti di lavoro”; con questo stesso nome il Presidente americano aveva presentato al Congresso una proposta di legge, nei fatti mai approvata. Il Governo italiano ha poi provveduto a chiarire direttamente il significato di questa singolare denominazione, dichiarando che si tratta del “piano del Governo per favorire il rilancio dell’occupazione e riformare il mercato del lavoro italiano”. Questioni terminologiche, certo, ma legate a doppio filo con la politica, l’economia, la società. Il decreto così pomposamente definito, emanato il 24 aprile 2014, alla lettura risulta quasi deludente, non essendo altro che un gruppetto di articoli volti ad abrogare o sostituire singole parole od espressioni contenute nel precedente d.lgs. 368/2001. Dal punto di vista sostanziale, però, le discussioni investono questioni fondamentali per moltissimi giovani che non riescono ad immettersi in modo soddisfacente sul mercato del lavoro. Le premesse, che precedono l’effettiva indicazione delle norme hanno un forte impatto programmatico: sul presupposto di quella che viene indicata come “straordinaria necessità ed urgenza”, si procede a semplificare (testualmente): “alcune tipologie contrattuali di lavoro”, per andare incontro alle esigenze dei giovani; “le modalità attraverso cui viene favorito l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro”, “gli adempimenti a carico delle imprese”. Si ritiene inoltre necessario “individuare alcuni criteri per il riconoscimento della riduzione contributiva per i datori di lavoro che stipulano contratti di solidarietà”. Alcuni commentatori hanno salutato il nostro decreto come un primo passo sulla giusta via dell’occupazione, ritenendo che l’iniziativa del Governo sia stata molto opportuna, perché ha contribuito al superamento di alcuni vincoli all’assunzione giudicati inutili: in tal modo esso avrebbe aperto la possibilità di incrementare le iniziative imprenditoriali, prime frenate dall’eccesso di regole.
Una delle novità del Jobs Act consiste nell’eliminazione della causale dai contratti a tempo determinato e da quelli di somministrazione di lavoro, vale a dire il fatto che non sia più necessario indicare la motivazione per cui si stipula il contratto a tempo determinato. Questo dato è ritenuto positivo, perché esso, in concreto, facilita le decisioni aziendali e mette in moto un circolo virtuoso che si articola in tutte le fasi fondamentali per arrivare ad un’occupazione soddisfacente: innanzitutto, l’aspetto dell’inserimento in un ambiente lavorativo, che da solo, però, non basta a creare un lavoratore; occorre, infatti, anche un’adeguata formazione, alla quale deve seguire una continuità dell’esperienza professionale. Tutto questo sarebbe garantito, più che dai tradizionali contratti di lavoro a tempo determinato, dalla nuova figura di flessibilità introdotta dal contratto di somministrazione, flessibilità definita “buona” proprio per le opportunità che essa dischiude. In questa prospettiva, tra l’altro, non è da sottovalutare il fatto che, alla scadenza, un contratto di somministrazione su tre si trasforma in contratto di assunzione a tempo indeterminato. Sembra, dunque, che il contratto di somministrazione, se adeguatamente valorizzato, possa presentarsi come strumento davvero valido al fine di dare una spinta nel senso giusto all’occupazione. Oltre ai già menzionati vantaggi sul versante della flessibilità, esso offre infatti un’adeguata protezione per i lavoratori, più di quanto si possa affermare per il contratto a tempo determinato. Un altro elemento su cui sarebbe opportuno puntare è quello dell’apprendistato, al quale dovrebbe essere restituita la funzione di veicolo principale per l’inserimento dei giovani nel mercato del lavoro, con la prospettiva e l’obiettivo di riportare in primo piano il valore del lavoro a tempo indeterminato. Nulla di nuovo, in fondo, sotto il sole: discussioni che da sempre impegnano i tecnici e dividono l’opinione pubblica, combattuta tra opposte alternative, nessuna delle quali, spesso, è idonea a essere considerata come la soluzione ideale per riconquistare una serenità lavorativa che, in questo scorcio di storia, appare ancora troppo incerta.
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A cura di Matteo Cioffi
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