05 Agosto 2014
Nomi, etichette, foto: tutto fa pensare al made in Italy alimentare d’eccellenza. E invece no. Si tratta di contraffazione.
Il fenomeno, noto con il nome di italian sounding, si basa su una dinamica tanto semplice quanto efficace: utilizzare denominazioni geografiche, immagini e marchi che evocano l’Italia per promuovere e commercializzare prodotti che nulla hanno a che fare con il nostro Paese.
Una forma eclatante di concorrenza sleale e truffa nei confronti dei consumatori, che, secondo le stime, frutta qualcosa come 60 miliardi di euro l’anno, il doppio, cioè, dell’attuale valore delle esportazioni italiane di prodotti agroalimentari, attestate a quota 27 miliardi di euro.
Un business enorme, quindi, che potrebbe rappresentare un formidabile terreno di caccia per le nostre aziende, spingendo così un export che ha sì conosciuto negli ultimi anni una stagione di sviluppo, ma che è ancora molto lontano dai livelli raggiunti dalla Germania, Paese non certo noto per la sua tradizione culinaria, capace però di registrare alla voce food & beverage ben 55 miliardi di euro di vendite oltreconfine.
L’italian sounding rappresenta, insomma, un problema grave, ma al tempo stesso - come è emerso dal convegno “Parliamo di food a 365 giorni da Expo” organizzato da Fiera Milano-Tuttofood - costituisce anche una sostanziosa opportunità di crescita per una Nazione come la nostra, nella quale soltanto il 12% delle imprese alimentari opera all’estero. A patto però che si agisca in modo mirato e tempestivo.
Barriere & accordi
Il primo aspetto da affrontare è senza dubbio il nodo normativo.
Allo stato attuale, i prodotti italiani sono fortemente penalizzati da un imponente impianto di barriere poste a protezione dei mercati interni dai Paesi a più alto tasso di sviluppo, che quindi rappresentano i mercati più interessanti per la nostra industria. A livello tariffario Brasile, Russia e Cina impongono, infatti, dazi medi compresi tra il 14% e il 17%, mentre l’India svetta a quota 34%.
E non va meglio neppure sul piano non tariffario, se si valuta che tra maggio 2012 e maggio 2013 il solo quintetto costituito da Argentina, Russia, Indonesia, Brasile e Cina ha emanato 414 provvedimenti restrittivi.
«Nel caso, per esempio, di carni e salumi - ha confermato Lisa Ferrarini, presidente dell’associazione di settore Assica durante il meeting - siamo sottoposti a fortissimi vincoli sanitari che ci impediscono di essere presenti in mercati dove inesorabilmente lasciamo campo libero proprio all’italian sounding».
In questo modo, dunque, «Viene dato spazio a una zona grigia - ha aggiunto Paolo de Castro, presidente uscente della Commissione Agricoltura e Sviluppo Rurale del Parlamento Europeo - che può e deve essere invece combattuta attraverso regole e accordi internazionali capaci di assicurare trasparenza sulla qualità delle materie prime e sui processi produttivi utilizzati dagli operatori di filiera».
Una direzione verso la quale, a dire il vero, qualche passo è stato fatto. A livello comunitario, nel 2010 è stato approvato il Regolamento sulle informazioni alimentari ai consumatori, grazie al quale è stato introdotto l’obbligo dell’etichettatura di origine per i prodotti zootecnici.
Due anni più tardi, è poi entrata in vigore la protezione ex officio del “Pacchetto qualità”, infatti, che prevedendo l’obbligo di ritiro dal mercato in caso di usurpazione di un marchio collettivo, ha permesso finalmente di tutelare i prodotti certificati non solo all’interno dei territori nazionali, ma anche negli altri Stati membri. E l’Italia, con 264 Denominazioni di origine sulle complessive 1.250 dell’Unione, è senza dubbio candidata a trarre i maggiori benefici da questa normativa. Ma non è tutto.
Lo scorso ottobre è stato infatti siglato un accordo bilaterale tra Ue e Canada che segna l’apertura da parte di un Paese anglosassone al sistema Europeo delle Indicazioni Geografiche, attraverso il riconoscimento di 145 tra Dop e Igp dell’Unione.
Un primo passo cui ne dovrebbero seguire altri. «Bruxelles ha avviato una serie di negoziati bilaterali tra cui si devono segnalare quelli con India, Usa e Giappone - ha confermato de Castro -.
Negoziati che potrebbero rivelarsi un volano importante per l’economia del Vecchio Continente, se si considera che la sola conclusione dell’accordo con Washington potrebbe far aumentare le esportazioni agricole comunitarie del 15% da qui al 2027 (+1,7 miliardi di euro l’anno) e quelle di prodotti alimentari trasformati del 45% (+13,4 miliardi di euro l’anno).
Nel caso poi del Giappone, la crescita potrebbe essere ancora più rilevante, arrivando a segnare un’accelerazione del 137%, che tradotta in cifre corrisponderebbe a 5,9 miliardi di euro l’anno».
E l’Italia ha tutte le carte in regola per partecipare al “banchetto”.
Fare sistema
Ma le buone notizie non si esauriscono qui. «La tempistica degli accordi bilaterali - ha osservato Maurizio Martina, Ministro delle politiche agricole e forestali - potrebbe subire un’accelerazione grazie al combinato costituto da Expo e presidenza italiana all’Ue (partita il 1° luglio 2014, ndr), che potrà, più in generale, velocizzare il complessivo percorso destinato a ridisegnare il nostro sistema agroalimentare.
Perché questo accada, tuttavia, è imprescindibile che l’Italia si prepari a gestire in modo adeguato la propria posizione all’interno dell’Unione.
E in questa prospettiva, la nutrita compagine di delegati italiani eletti in capo al Pd lo scorso 25 maggio potrà rivelarsi un elemento di grande forza, capace di garantire compattezza all’azione del nostro Paese».
La capacità di unire le forze è del resto un passaggio obbligato per il nostro Paese. «Se si chiederà alle singole filiere di operare in modo autonomo non si andrà lontano - ha osservato Andrea Illy, presidente fondazione Altagamma e presidente e AD di Illycaffè - .
Occorre invece organizzarsi a livello complessivo.
Solo così si potranno infatti mettere in campo strategie di difesa adeguate a combattere un fenomeno come l’italian sounding».
E dello stesso avviso è anche De Castro: «Il problema della contraffazione è destinato a diventare insormontabile se non agiremo in una logica unitaria.
Noi italiani però siamo di natura spiccatamente individualisti e questo, di certo, non aiuta. Si aggiunga poi che il nostro Paese manca di una catena distributiva nazionale forte, in grado di agire da “testa di ponte” per l’introduzione dei prodotti tricolore oltreconfine, così come accade invece nel caso della Francia, che può beneficiare delle reti capillari di Auchan e Carrefour».
Una difficoltà ben nota, verso cui il Governo non sembra peraltro insensibile. «Stiamo valutando la possibilità di concedere un credito d’imposta alle insegne - ha detto Martina - così da spingerle verso la creazione di piattaforme logistico-distributive capaci di operare a livello internazionale.
Credo comunque che la via più efficace e praticabile sia quella di stringere alleanze e partnership con catene già esistenti in modo da promuovere e proporre all’interno delle loro reti il nostro agroalimentare».
L’opzione distributiva non è tuttavia la sola percorribile.
«Il nostro Paese - ha fatto notare Andrea Illy - può contare anche su una importante network di ristoranti nel mondo che possono rappresentare un straordinario hub per le nostre eccellenze in fatto di cibo.
Inoltre, non dobbiamo dimenticare che a favore dell’Italia giocano un leader mondiale del food service come Autogrill e un portabandiera della nostra cucina e dei nostri prodotti come Eataly».
Focus sulla promozione
Infine, un ruolo non marginale nella lotta all’italian sounding potrà essere recitato dalla capacità istituzionale di dare vita a rilevanti sistemi di promozione a supporto dell’export agroalimentare, seguendo la via già tracciata dagli Usa che nel 2012 hanno stanziato a questo scopo 205 milioni di euro. E anche in questo caso, almeno a livello comunitario, qualche passo è stato già compiuto.
«È stato approvato ad aprile - ha ricordato De Castro - un Nuovo Regolamento che assicurerà una dotazione finanziaria pari a 61,5 milioni di euro per il primo anno, per poi arrivare a 200 milioni di euro nel 2020. E che, rispetto al precedente, allarga la platea dei beneficiari a prodotti come pasta, pane, prodotti dolciari, cioccolata e birra».
Qualcosa insomma si muove, anche se non è bene farsi illusioni: la strada è ancora lunga.
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