13 Agosto 2020
È indubbio, il mercato del vino sta spingendo con due forze uguali e parallele: una maggiore consapevolezza del processo sia in vigna che in cantina, che si concretizzi poi (o meno) in una certificazione – biologica o biodinamica – e un rafforzamento delle sempre mal digerite Denominazioni di Origine Controllata, a mio avviso ancora fondamentali per la credibilità del nostro prodotto sia in Italia che all’estero. Tra le due, un mercato florido, che anche per una questione di trasparenza verso i consumatori necessita, forse, di raffinare e chiarificare la comunicazione.
Partiamo dal termine, proprio ‘vini naturali’, che verosimilmente, andando a identificare una comunità di intenti (o movimento etico filosofico) e non un disciplinare, contribuisce già di suo a generare interpretazioni discordanti. Già, perché quella del ‘vino naturale’ non è un’accezione ufficiale: vuole dire un può tutto un po’ niente. Si muove da un approccio biologico e tende alla biodinamica, ma rifiuta tutto quello che i disciplinari consentirebbero, perché l’intento è garantire un prodotto il meno ‘manipolato’ possibile.
Diremo allora che il vino naturale è quel vino che nasce da una somma di attività, che uniscono vigna a cantina che, partendo da un approccio quantomeno biologico, si muovono nella direzione del minor interventismo possibile nei confronti della produzione, con un rifiuto totale della chimica di sintesi in ogni fase della lavorazione (pesticidi, erbicidi o insetticidi in campagna, processi di modifica organolettica in cantina, ovverosia aggiunta di colle o coadiuvanti, chiarifiche, microfiltrazioni, micro-ossigenazioni). L’unico intervento consentito è quello dell’aggiunta di solfiti, un po’ perché si tratta di un prodotto naturale della fermentazione, un po’ perché comunque la solforosa, aggiunta in quantità non dannosa per l’organismo, permette di rendere il prodotto più stabile nel tempo, impedendo a una bottiglia di trasformarsi da un imprescindibile supporto ‘ricreativo’ in un qualcosa di dannoso.
Per fare un esempio delle linee guida dei prodotti naturali, a differenza del disciplinare del biologico, che permette di denominare un vino tale quando ha quantitativi di solforosa minori di 100 mg/l (vini rossi) o di 150 mg/l (bianchi), con la normativa europea che consente rispettivamente 160 e 210 per la messa in commercio (con un più 40 mg/l in caso di annate sfavorevoli), i produttori normalmente si attestano tra i 25 e i 40 mg/l. Anche se l’obiettivo, nemmeno a dirsi, è quello di scendere sotto i fatidici 10 mg/l che obbligano alla citazione in etichetta.
Altra usanza tipicamente italiana, consentita per esempio in Austria, è la proibizione dell’utilizzo dei cosiddetti liqueur d’expedition o di ogni alterazione del dosaggio zuccherino. Quindi, in caso di spumantizzati, o zero dosage o niente. Sia chiaro, si tratta di principi rigidi e di difficilissima applicazione, verosimilmente riservati a micro produzioni (tutte in vigne di proprietà, sia bene inteso!) in cui è realmente possibile curare ogni aspetto, dalla campagna alla cantina, ma soprattutto perché per rendere quanto più possibile ‘spontaneo’ un processo come la fermentazione (che spontaneo sicuramente non è), è necessaria una finezza, la classica ‘mano’ del produttore, che non si impara soltanto sui libri. Anzi. È fatta di vendemmie, fatica, tentativi, molti errori e altrettanti cocciuti tentativi.
Ovvio che si tratta di un movimento in embrione, che tuttavia accomuna – complice il cambiamento climatico – diversi produttori in un territorio genericamente ‘europeo’, allargato a platee non così usuali come Repubblica Ceca e Slovacchia, l’Istria, le più classiche Austria e Slovenia; ma quello che è necessario rilevare, almeno nei miei ultimi assaggi, è un netto innalzamento del livello qualitativo: prodotti stabili che, pur riflettendo fedelmente, proprio per questo sforzo di non invasività, le caratteristiche dell’annata, riescono a completare la platea dei vini in commercio in una direzione di nicchia (e necessaria), davvero lontana dal maistream.
Per chiudere, faccio qualche nome basandomi su recenti bottiglie che mi hanno impressionato: per esempio Tavcar in Slovenia, Meinklang in Austria, Slobodnè Vinárstvo in Slovacchia, per poi finire con Giuseppe Mascoli di Salina, Paraschos, e ovviamente l’imprescindibile Radikon, ad Oslavia, due monumenti nel Collio.
Romagnolo verace, Luca Gardini inizia giovanissimo la sua carriera, divenendo Sommelier Professionista nel 2003 a soli 22 anni, per poi essere incoronato, già l’anno successivo, miglior Sommelier d’Italia e – nel 2010 – Miglior Sommelier del mondo.
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A cura di Matteo Cioffi
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