pubblici esercizi
08 Settembre 2020Di Lino Stoppani, presidente Fipe
Nella fase post-emergenziale da Covid-19, per il settore dei Pubblici Esercizi, quasi paradossalmente, sono esplose le problematiche collegate a due fenomeni opposti eppure concomitanti: la movida e lo smart working.
Il fenomeno della movida non è di certo nuovo, come non lo è, purtroppo, quello della “mala-movida”, ma ha trovato nella sofferente clausura imposta dal lungo lockdown un detonatore che ha acceso in alcuni il desiderio di eccessi e ha alimentato patologie sociali come la violenza, il vandalismo e il disordine.
Questo tipo di situazioni non preoccupano giustamente solo chi gestisce l’ordine pubblico delle città, ma sono un problema vero e proprio per gli stessi Pubblici Esercizi che, tanto più in un periodo di forti criticità economica e organizzativa, si trovano vittime di un contesto che scoraggia la buona clientela e porta inevitabilmente a provvedimenti amministrativi di divieto o limitazione delle attività, con ulteriori danni economici.
Oltre il danno c’è anche la beffa: perché spesso proprio sulle imprese della somministrazione viene scaricata la colpa di tali situazioni, quando invece ne andrebbero ben approfondite le cause a livello sociale. Tali cause vanno infatti individuate nell’educazione civica e valoriale, in uno spinto liberismo che minimizza la professionalità e anche nel modello di sviluppo commerciale diffuso nel nostro Paese: chiunque può acquistare alcol a qualsiasi ora, tramite i numerosi minimarket proliferati nei centri delle città e in tanti chioschi e venditori ambulanti, a volte anche abusivi, che spesso ledono le regole su orari e luoghi di posizionamento e non rispettano il divieto di vendita ai minori.
A questo si collega un tema di sviluppo urbanistico, con politiche discutibili -e poco discusse- che negli ultimi decenni hanno deviato flussi commerciali, promosso interessi immobiliari, consumato territorio, desertificato intere aree, determinando una radicale trasformazione del tessuto sociale e commerciale, con un sovraffollamento in alcuni contesti delle stesse attività di pubblico esercizio.
Ben inteso, il settore ha - e deve avere - delle responsabilità e quando Fipe si impegna nella sua azione a contrastare i fenomeni dell’abuso di alcol e del disordinato sviluppo urbanistico-commerciale lo fa esattamente in quest’ottica di com-partecipazione. Esiste infatti la possibilità di pensare ad una “movida-sostenibile”, cioè una fruizione del divertimento serale in un’ottica di rigenerazione urbana e non di degrado, ancorandosi allo sviluppo qualitativo dei Pubblici Esercizi grazie, per esempio, a dispositivi anti-rumore, a nuove modalità di fruizione degli spazi esterni, a servizi di cortesia per evitare disordine e a una rinnovata collaborazione con i Comuni.
Anche questo deve essere il modo per ridare luce alle città, uscite svuotate, smarrite e intristite dal lungo periodo di lockdown, favorendo un contagio di positività e contribuendo ad accompagnare il difficile percorso verso la normalità perduta. Un percorso che proprio lo smart-working – e arrivo dunque al secondo fenomeno critico di questo momento storico – che sta causando una perdita costante e consistente di clientela (8 milioni di lavoratori al giorno), mettendo in difficoltà la rete delle attività di servizio, cresciuta nel tempo proprio per dare risposta ai lavoratori fuori casa.
È chiaro a tutti che in una fase emergenziale sia prevalsa la giusta preoccupazione di non favorire la diffusione del contagio. Meno chiaro a molti è che mantenere il modello del lavoro agile massivo nella fase post-emergenziale crea una serie di controindicazioni, riassunte da interventi pubblici come quelli del Professor Pietro Ichino e del Sindaco di Milano Giuseppe Sala. Laddove il giuslavorista pone un problema di produttività del lavoro, soprattutto nella Pubblica Amministrazione, il Sindaco di Milano ha manifestato una preoccupazione per il rischio di un deterioramento della coesione sociale, senza le frequentazioni nelle quotidiane occasioni di incontro tra le persone dettate dal lavoro.
Il rappresentante dei Pubblici Esercizi, invece, non può mancare di evidenziare in aggiunta il rischio collegato ai cali di fatturato: se le imprese non lavorano, riducono inevitabilmente i posti di lavoro, aggravando in tal modo non solo i dati sull’occupazione (e tutti abbiamo visto il drammatico rapporto Istat uscito poche settimane fa), ma anche alimentando una pericolosa dispersione di professionalità e un indebolimento della “rete distributiva della socialità” di cui i Pubblici Esercizi sono il motore. Lo smart-working finisce per non essere più tanto “smart” se impoverisce tutto il sistema.
Tornare alle tradizionali modalità di lavoro non significa peraltro tornare indietro. Significa invece trovare i modi di vivere i luoghi in sicurezza, ridefinendo gli orari e la vivibilità cittadina. Essere “smart” significa guardare avanti, dando il giusto valore al lavoro, al buon lavoro, di tutti, dal “working” al divertimento serale.
Temi delicati, quindi, tra voglia di aggregazione e opportunità di isolamento, da accompagnare, però, con la giusta attenzione e responsabilità, anche per evitare la pandemia della povertà, che è tra i pericolosi effetti collaterali del Covid-19.
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A cura di Matteo Cioffi
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