caffè
07 Gennaio 2014Sul finire dell’anno è riesplosa la polemica sul prezzo della tazzina di caffè al bar a seguito dell’annuncio di aumento da parte degli esercenti di Genova. E come in altre occasioni anche stavolta abbiamo assistito ad un’escalation di calcoli effettuati da improvvisati businessmen tesi a determinare il prezzo congruo della tazzina di caffè. Ecco allora stabilire il valore della materia prima (i famosi sette grammi di miscela), il costo del lavoro necessario per produrre, il valore dell’ammortamento della macchina, ecc. da cui si dimostrerebbe che sul caffè c’è un margine consistente, fino al 40% nel caso di un prezzo finale a 1,20 euro.
Questi ragionamenti hanno in comune un vizio logico di fondo che consiste nel non valutare i costi complessivi dell’attività ed il valore che ciascuna tipologia di prodotto assume all’interno del conto economico del bar. Partendo dall’assunto di base che tutti i costi aziendali finiscono nei prezzi dei beni e servizi venduti proviamo a rifare il ragionamento non prima di aver definito proprio la struttura delle vendite.
Come si può ben vedere la caffetteria contribuisce per un terzo al fatturato del bar. Si tratta di valori medi suscettibili di forte variabilità in funzione della specializzazione del bar.
I costi complessivi della tazzina
Se un bar vendesse solo caffè la ricostruzione del costo della tazzina sarebbe immediata nel senso che basterebbe dividere tutti i costi (materia prima, lavoro, affitto, utenze, ecc.) per il numero delle tazzine vendute. A nessuno verrebbe in mente di fare il calcolo analitico riferendosi, tra l’altro, al costo del lavoro necessario per produrre e servire quella tazzina. Anzi, se qualcuno si esercitasse a fare l’analisi induttiva del costo della tazzina di caffè misurando la quantità di materia prima, la quantità di lavoro, il consumo di gas per la macchina e ogni altro elemento direttamente connesso alla produzione di quella tazzina scopriremmo che una quota significativa di costi non risulterebbe coperta. Si pensi, ad esempio, al costo del lavoro che l’impresa sostiene anche quando non ci sono clienti (capita) o a quello necessario per sistemare il banco bar, il locale e via di seguito.
Ma un bar non vende solo caffè e quindi su ogni prodotto/servizio erogato gravano non solo i costi direttamente connessi alla produzione di ciascuno di essi (in primis materia prima e lavoro) ma anche i costi generali (affitto, ammortamenti, utenze, servizi, formazione, sicurezza, pulizia, ecc.) e residuali. Un criterio per attribuire questi costi è quello proporzionale, ovvero la ripartizione sui singoli prodotti in proporzione alla loro incidenza sui ricavi. Cosa significa? che se la tazzina di caffè vale un terzo del fatturato, essa deve assorbire, al netto delle politiche commerciali dell’impresa, un terzo dei costi complessivi.
Ecco allora che un criterio corretto, non l’unico, per misurare costi e redditività della tazzina è quello di basare i calcoli sui costi complessivi e sul “peso” che la tazzina ha nell’economia del bar. Abbiamo provato, per comodità, a farlo con riferimento ad una singola giornata di attività ed il risultato è quello descritto nella tabella che segue.
La sostanza
I valori si possono anche modificare ma la sostanza non cambia. E la sostanza è che nella migliore delle ipotesi il margine lordo della caffetteria non supera il 10%.
E fin qui abbiamo detto del livello dei prezzi della tazzina, non della dinamica. Anche sotto questo profilo è interessante rilevare gli avvenimenti degli ultimi due anni, ma potremmo allargare il campo di osservazione ad un periodo più ampio per avere le stesse evidenze. Da gennaio 2012 a febbraio 2013 l’aumento medio del prezzo della tazzina è stato costantemente al di sotto dell’inflazione generale. Da marzo il trend si è invertito per effetto della brusca decelerazione della dinamica generale dei prezzi che, peraltro, ha interessato anche la tazzina di caffè. Eppure nello stesso periodo i prezzi di alcuni servizi sono schizzati all’insù come nel caso dell’acqua o dei rifiuti che tra ottobre del 2012 ed ottobre del 2013 sono aumentati rispettivamente del 5,8% e del 7,1%. Ma se guardassimo alla Tares applicata ai bar scopriremmo che gli aumenti arrivano fino al 300%.
In conclusione
In conclusione possiamo dire che se i bar decidessero di aumentare il prezzo della tazzina, in particolare quando è stato tenuto fermo anche per tre/quattro anni, non ci sarebbe nulla di scandaloso ma semplicemente una normale dialettica di mercato che tiene conto dell’andamento dei costi e della domanda. Ed è certo che un supplemento di attenzione nei riguardi di un consumatore in difficoltà non sarebbe estraneo alle scelte delle aziende.
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A cura di Matteo Cioffi
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