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28 Luglio 2023Carola Abrate ci racconta la filosofia del Dirty, cocktail bar milanese che ha aperto lo scorso marzo con Gigi Tuzzi e Mario Farulla, che ha fatto parlare di sé per qualche provocazione (Simmenthal, banana a 1 euro e Sakebon in carta, il décor hard) e un approccio originale. Obiettivo: divertirsi e divertire. “Siamo aperti fino alle 4 del mattino, per chi vuole bersi l’ultimo e mangiare l’ultimo”. Un programma semplice e lineare in una città come Milano, si direbbe. E invece no.
Perché Milan l’è un gran Milan ma dopo la mezzanotte, come Cenerentola, va a dormire e diventa difficile, se non impossibile, trovare da bere e soprattutto da mangiare. Dopo le 2 poi è il deserto dei Tartari. Anche per l’apertura allungata il Dirty si è fatto conoscere dai nottambuli meneghini. Con una buona dose di provocazione, certo, ma anche tanta comunicatività e sostanza.
Un altro bar a Milano, se ne sentiva l’esigenza? In che modo pensate di distinguervi?
"Non abbiamo inventato niente di nuovo, il nostro obiettivo era di riportare in auge lo stile del divertirsi dei bar anni ’80 e ’90 sfruttando però il miglioramento dei prodotti che c’è stato negli ultimi 10 anni. Il nostro vuole essere un bar diretto, semplice, brutale anche, con questo stile un pochino Bronx. Vogliamo essere un punto di ritrovo conviviale, con prodotti semplici e dove si può ordinare qualsiasi cosa senza venire giudicati. Un bar che si veste per il cliente e non viceversa".
Il vostro stile di mixology?
"Vogliamo esaltare il sapore di drink con pochissimi ingredienti con questa aggiunta un po’ “dirty”, la parte acetica e salina delle salamoie, che dà una spinta al drink. Questo è quello che stiamo facendo ora, senza andare a trasformare i classici, che facciamo, o il tonic della casa che è diventato il nostro drink popolare di punta. Abbiamo scelto consapevolmente di non usare gli strumenti che si usano oggi al bar tipo Rotavapor, jigger, mixing glass per far capire alle persone che tante volte tu paghi tanto quel drink per giustificare la tipologia di macchinari che vengono utilizzati. Lavoriamo in pre-batch per mantenere lo stile e la qualità dei prodotti, il lavoro è molto semplice e deve essere così: semplice, buono e veloce. Siamo no brand, non facciamo vedere le etichette. Unica eccezione, il nostro gin che è un classico London Dry, molto semplice e diritto".
Da qui il nome Dirty
"È un nome che nasce perché volevamo fare qualcosa di diverso, ispirandoci al Dirty Martini: il Martini è un drink che di per sé è già completo ma con quell’oliva migliora. Poi c’è quel concetto di sporco, sporcato, riadattato che richiama l’estetica dei graffiti newyorchesi anni ’80. Siamo anche amanti dell’arte, purtroppo non ce ne intendiamo tanto quindi ci siamo fatti aiutare da Nick Maltese, studio di architetti milanese. Gli abbiamo dato dieci parole chiave tra le quali c’era brutal, porno, provocatorio, fuori dagli schemi, loro hanno chiamato questo ragazzo di Castellamare di Stabia, Antonio Della Guardia, che a mano libera ha iniziato a disegnare, e ci è piaciuto tantissimo. Volevamo fare una cosa semplice e soprattutto diversa da quello che c’è a Milano adesso, quei locali asettici molto simili gli uni dagli altri, la nouvelle cuisine, il locale chic. Per noi il bar è un posto dove ci si diverte, dove persone diverse si incontrano e vedi l’avvocato che sta al bancone col ragazzo con lo skate e parlano insieme. Siamo volutamente spartani nel servizio perché non vogliamo disturbare il cliente che viene qua perché ha avuto una giornata bella o brutta, per dimenticare o per far accadere qualcosa, e non deve avere l’oppressione di due o tre persone che lo servono".
Avete scelto di metter in menù il junk food
"Non è solo per la provocazione in sé, se facciamo una bruschetta la facciamo al meglio che possiamo con prodotti di alta qualità. Non abbiamo una cucina ma un laboratorio con piastra a chiusura, affettatrice e bollitore, non possiamo fare pasta o hamburger e quindi abbiamo scelto di proporre cose che accogliessero la richiesta ma anche che potessimo permetterci di fare. Abbiamo pensato: cosa vorremmo avere in frigo se dopo una serata arriviamo a casa e abbiamo fame?".
La sensazione è che l’approccio “Master chef” si stia riversando nel mondo bar…
"Noi siamo baristi normalissimi, chi sta in cucina fa il lavoro duro, il vero lavoro del bar non è tanto fare i drink ma ciò che sta dietro: fare gli ordini, gestire le misure per evitare gli sprechi, scegliere cosa utilizzare e cosa no. Tendiamo ad evitare drink che prevedono il lime, l’arancia, il limone che chiamano lo spreco, usiamo polpe di frutta delle quali garantiamo al 100% la qualità, non potremmo mai essere più bravi di chi lavora per fare questi tipo di prodotto".
Sostenibilità: è una cosa che per voi conta?
"Il bar non può essere mai totalmente sostenibile da quando apri la serranda e accendi la macchina del ghiaccio e accendi le luci: puoi fare il possibile, noi cerchiamo di limitare il danno collaterale, non c’è spreco con la polpa e il pre-batch, la polpa conservata nell’alcol dura mesi, tendiamo ad usare poco il succo fresco e nel caso lo spremiamo al momento, se no usiamo un blend di acido citrico, tartarico e malico che dà la stessa qualità al prodotto. In Nord Europa si usa da anni ormai. Cavalchiamo l’onda che viene dalla ricerca ma assecondiamo il cliente che vuole l’alternativa classica. Quindi sì provocatori, sì antisistema, però sempre in linea con i nostri clienti".
Il futuro?
"Dirty è il primo di altri progetti, la nostra idea è sicuramente di espanderci, fare cose in una chiave simile ma un pochino più originali: vogliamo dare un po’ più di originalità e colore a Milano".
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A cura di Matteo Cioffi
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