caffè
20 Novembre 2014[caption id="" align="alignnone" width="144"] Carlo Odello[/caption]
La millenaria ricerca asiatica di equilibrio sta disegnando scenari nuovi e sta frenando la corsa a caffè diventati spesso squilibrati
“I clienti dopo avere preso il caffè si congratulano con me: finalmente un caffè come si deve, così mi dicono. Parlando con loro ho capito che si riferiscono all’odore di tostato che talvolta non trovano in città, ci sono in giro tostature troppo chiare e acide”, così mi racconta la titolare di Zoska, un grazioso locale dai modi garbati a Budapest. Un paio di settimane dopo a Seoul è il proprietario di Coffee Bang-A, una fornitissima micro-torrefazione, a raccontarmi che “la ricerca della grande acidità in città è finita, ora si cercano prodotti molto più bilanciati” (e infatti l’espresso che mi ha preparato è davvero ben equilibrato). Un paio di giorni dopo mi trovo in compagnia della signora Gu, che ben quattordici anni fa aprì il primo bar di Changwon, nel sud della Corea. Mi guarda e mi dice: “Dell’espresso italiano apprezzo l’equilibrio e la complessità”. E intanto mi serve un bilanciatissimo drip coffee di nota monorigine centramericana.
Cosa sta succedendo all’acidità nel caffè? Probabilmente stiamo vivendo un momento di svolta. La poverina è stata talmente esasperata da alcuni professionisti dell’industria dello specialty coffee da diventare antipatica. Quella che giustamente è una nota nobile del caffè, un tratto distintivo della qualità, un apprezzabile fattore di piacevolezza quando inserita in un certo contesto sensoriale, ha prodotto figli degeneri (e questi si sono diffusi nel mondo). Però i fautori dell’acidità estrema, di tazze che ricordano spremute, non si sono resi conto di un punto quando sono arrivati in Asia: la cultura dell’area è fondata sul concetto di equilibrio. All’inizio in questi paesi che ancora non conoscevano il caffè, questa estrema acidità è stata vissuta come intrinseca, poi si è capito che si poteva moderare e armonizzare per dare freschezza a tazze più equilibrate e complesse. D’altronde parlando con un bel torrefattore della West Coast americana, ma di chiare e fiere origini italiane, entrambi avevamo convenuto su un punto: in bocca il caffè deve essere carezza, non cazzotto.
E' interessante però cercare di capire come mai l’acidità sia assurta a ruolo di fattore chiave. Alcuni professionisti australiani ritengono che questa sia stata fondamentalmente scelta come punto di rottura dall’industria del caffè di alto livello nell’America degli anni Settanta. All’epoca, questa la teoria, codesta nicchia di torrefattori cercava un modo per distinguersi dalla massa del caffè in circolazione, di livello a detta loro assai dubbio. Quindi spingere l’acceleratore sull’acidità era essenzialmente un modo per marcare la differenza tra la freschezza (e i correlati aromatici come florealità e fruttatezza) dei loro caffè e le caratteristiche ben meno positive dei concorrenti. Poi qualcuno si è fatto prendere la mano ed è nata la corsa verso l’acidità fine a se stessa, un gioco commerciale che ha generato caffè di raro squilibrio. Ma la millenaria ricerca asiatica dell’equilibrio sta ora disegnando panorami nuovi che apriranno, a detta degli operatori del mercato, molte porte anche alle miscele italiane di qualità.
L’autore è Consigliere dell’Istituto Internazionale Assaggiatori Caffè e Amministratore del Centro
Studi Assaggiatori
www.assaggiatoricaffe.org
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