18 Aprile 2017
Una barlady che è uno dei fiori all’occhiello dell’intero movimento del bartending made in Italy e colpisce per serietà, determinazione, capacità di leggere le tendenze che attraversano il bere miscelato nel nostro paese e di saperle interpretare con perizia e sensibilità: Chiara Beretta, dal suo punto di osservazione privilegiato del Rita & Cocktail di Milano e dalla sua lunga gavetta che l’ha portata da un bar della Brianza fino ai vertici di questo movimento, analizza l’evoluzione di questo fenomeno, da sempre subalterno al vino almeno nell’accezione italiana del bere,ma che sta bruciando le tappe in questa corsa espansiva. “Possiamo vedere quest’evoluzione su più fronti – spiega – nei clienti, nei barman e nelle aziende fornitrici. Se fino a qualche tempo fa il fenomeno del bere miscelato era riservato ai grandi centri urbani e a determinati locali, oggi siamo di fronte a un allargamento di questo fenomeno anche in provincia, con tanti talenti che stanno emergendo e buoni locali. Certo Milano, con la sua attitudine cosmopolita, rimane la città più importante per i cocktail, ma anche altre aree d’Italia presentano realtà di sicuro interesse. Anche il cliente medio si è evoluto: non si accontenta più, ha gusti più precisi e definiti e chiede al barman un approccio più professionale”.
Quali sono le ragioni di questo fenomeno evolutivo?
Sicuramente c’è stato un salto generazionale, tra coloro che hanno avuto un processo formativo classico con una gavetta più lunga, e le nuove leve che hanno molta più facilità nell’approcciare lo studio e la sperimentazione. Oggi per un giovane aspirante barman o barlady, è più facile costruirsi un percorso formativo, anche esplorando realtà differenti e poco convenzionali, e dare sfogo ai propri interessi o sviluppare il proprio talento.
Secondo lei c’è uno scontro generazionale in atto?
Chi ha avuto una formazione classica vede nelle nuove generazioni più improvvisazione che studio. Viceversa, chi appartiene a questa nuova versione del movimento, vede la generazione precedente troppo ingessata in una gestualità e in una ritualità che non appartiene più ai giovani. Di fatto, non possiamo parlare di uno scontro generazionale, ma di certo di due modi di intendere il lavoro dietro al bancone. Quello che è certo, chi interpreta il proprio lavoro con impegno, serietà e tanta passione avrà più chance rispetto a chi improvvisa. Alla fine conta il risultato e il mercato: tra un Mojito buono, realizzato con cura, e uno fatto male, improvvisato, a parità di prezzo di certo le persone sceglieranno il bar nel quale viene servito quello buono. Molto semplice.
Le aziende coinvolte nel mondo del bere miscelato hanno foraggiato quest’evoluzione e stanno interpretando correttamente il cambiamento?
Di certo anche tra le aziende c’è maggiore consapevolezza. Aumenta la richiesta di prodotti di qualità, importati da tutto il mondo e questo è un segnale di come il settore stia cambiando pelle. Se fino a qualche anno fa un grossista aveva cinque tipi di vodka alla fragola e un solo gin, oggi il rapporto si è invertito, la vodka alla fragola è uscita dal listino e oggi lo stesso grossista ha cinque tipi di gin diversi.
In che modo il cocktail si è evoluto? In un paese come il nostro, le suggestioni che vengono dal mondo del food hanno trovato spazio? Oggi nessuno si scandalizza più di nulla, il buono al palato, pur nella sua relatività e soggettività, rimane sempre l’obiettivo cui ambire, ma di certo sono tante le strade e le influenze che si possono seguire. Tutti osano di più e la fantasia è un ingrediente molto importante, anche se non si può prescindere dalla tecnica di base.
Qual è il suo processo creativo quando approccia un nuovo cocktail?
Mi piace l’idea di twist on classic, ossia di interpretare personalmente una ricetta standard per apportarle modifiche fino a cambiarla, lievemente o in modo più sostanziale. Per esempio, se preparo un vodka sour, invece dello zucchero normale uso dello zucchero aromatizzato al rosmarino, che dà un tocco differente al cocktail. Poi posso continuare di questo passo, fino a stravolgere completamente la ricetta, secondo un processo creativo che consiglio, specialmente per tutti i barman alle prime armi che vogliono cimentarsi in ricette personali.
Food pairing, cocktail espressione del territorio, miscelazione di distillati finora preclusi: che ne pensa di questi tre fenomeni che stanno attraversando il mondo della mixability?
Sul food pairing sono un po’ perplessa, devo dire che non sono una grande sostenitrice dei cocktail usati per accompagnare i pasti, per via del loro contenuto alcolico e per il fatto che, finora, pochi al mondo hanno approcciato questo aspetto in maniera seria e sistematica, andando a indagare nel profondo gli abbinamenti. Se è una cosa fatta per stupire lascia il tempo che trova: mangiare è necessario, bere cocktail no, è un piacere, e credo che i due mondi debbano rimanere separati. Più o meno analogo il mio giudizio sulla territorialità della materia prima, aspetto importante nel food perché incide sulla freschezza e sulla qualità degli ingredienti, meno nel mondo dei cocktail, con grandi ingredienti che sono di produzione estera, quindi di importazione. In alcuni cocktail l’uso di ingredienti freschi, come spremute di agrumi o centrifugati, vede i prodotti locali protagonisti, ma stiamo parlando di alcune ricette, certo gradite soprattutto quando la temperatura estiva si fa sentire, ma che non incidono in maniera significativa. Del resto, come dicevo, bere cocktail afferisce al mondo del piacere, non a quello della nutrizione e trovo sia un po’ stucchevole applicare ai drink le stesse categorie che si hanno nel food solo per cavalcare le mode.
La ricetta
Fargo
INGREDIENTI
1.5 cl succo di lime
2 cl sciroppo di zafferano
2.5 cl punt e mes
4 cl campari
1 rametto di menta Soda alla salvia
Preparare in bicchiere old fashioned, guarnire con rametto di menta e lime essiccato
(Pietro Cinti)
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