24 Dicembre 2019

La grammatica della cucina

di Mauro Garofalo


La grammatica della cucina

La cucina del futuro. La tecnologia. Cosa sta cambiando e come cambierà il nostro modo di mangiare domani. Ma intanto quali sono gli errori più comuni da evitare se parliamo di ristorazione? Abbiamo chiesto a tre esperti la loro ricetta per una corretta grammatica della cucina. Oggi.

CARLO MEO, AD M&T SRL E DOCENTE POLIDESIGN
«La grammatica che oggi decreta il successo o l’insuccesso di un locale – commenta Carlo Meo, amministratore delegato di Marketing and Trade – varia a seconda se si vede il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, ed è quantomeno duplice. Da una parte c’è la creatività, il concepting, ovvero tutto ciò che crea “l’esperienza del cibo” nel consumatore, il modo in cui si concepisce il locale». Poi: «C’è la questione delle regole che occorre seguire se si vuole stare in questo settore, regole scientifiche a cui non si può derogare: il costo dell’affitto, il fatturato totale, il costo del personale, il food cost, i metri quadri giusti e la location giusta per il prodotto che si vuole proporre; infine la formazione del personale, e quale l’utilizzo che si vuole fare dei social e dei media». In sintesi per Meo, docente di New Entertainment design e Food Experience design del Polidesign Politecnico di Milano: «Oggi per sviluppare il concetto di food – stellato o no – occorre tanta creatività ma anche essere imprenditori. Del resto, commerciante, il ristoratore lo è sempre stato, anche se si deve ormai evitare l’improvvisazione, la capacità istrionica dell’oste che fino a qualche tempo fa poteva andare bene. Il savoir faire oggi si deve tradurre nel saper fare ristorazione a tutto tondo». Gli errori più ricorrenti: «Sono tre – per l’ad di M&T –. Il primo è pensare che, siccome il food è di moda, e piace, allora tutti ci si possa improvvisare. Tutti si “buttano” in questo settore: chi era un avvocato di successo, chi ha messo soldi da parte, chi conosce una case history, chi pensa che aprire uno street food sia facile, ma non lo è! – e, valuta il docente del Politecnico – questo è il settore più difficile, perché devi comprare materie prime e trasformarle. Chi vende jeans investe sul brand e vende quello, ma nella ristorazione devi comprare prodotti di qualità, saper stoccare, cucinare, scegliere il pane, servire in sala avendo formato camerieri simpatici e preparati». E non basta, perché ironia della sorte «se bruci un hamburger, hai compromesso tutto. Se il ristoratore è uno che lavora nel settore da anni, nel 99% ha un’impostazione familiare, e così molto spesso le logiche di casa vengono riportate a lavoro. Non dimentichiamo che questi locali fatturano come una piccola-media azienda italiana, è il tessuto che tiene in piedi il Paese (le fabbrichette di una volta). Spesso la percezione è che l’azienda familiare possa andare avanti con logiche tradizionali; oggi però è tutto più complesso, serve un’attenzione imprenditoriale ai costi, soprattutto se vuoi replicare il tuo modello di business; se sei un nuovo imprenditore, che finora ha sempre fatto altro, e ti approcci al food in qualità di appassionato – come accade con molti giovani – magari apri una pasticceria perché hai la passione per il cioccolato. Ecco non basta, perché lo hai sempre mangiato. Devi sapere che venderlo è un’altra cosa! ». Infine un ultimo errore per l’ad M&T: «Credere che i social risolvano i problemi: a volte si salta a piè pari il design del locale perché si ha una buona social reputation». Questo per Meo non può certo bastare: «Oggi chi ha successo lavora a livello di design del cibo, entra nel dettaglio del bicchiere, della posata in tavola, si occupa di scegliere le piastrelle della toilette, cura il sito internet, perfino il dress code dei camerieri». A livello generale poi, riflette Meo: «Viviamo in un periodo di eccesso di prodotti e fornitori, posso trovare ovunque del buon pollo o della carne chianina. Il tema è che non devi fare solo hamburger – se non hai nemmeno un brand – a decretare il successo oggi è quanto sei in grado di reggere il prezzo della concorrenza». E c’è un altro aspetto negativo, ricorrente in Italia: «Si pensa che occorra mangiare sempre al prezzo più basso, così mediamente oggi quello che mangi in Italia ha un prezzo minore (del 30-40%) rispetto al corrispondente che mangi a Londra, Parigi, New York». Il punto invece per Meo è saper differenziare il prezzo dei prodotti, essere capaci di comunicare la differenza di prezzo al cliente. «Non è scritto da nessuna parte che il caffè debba costare un euro, potrebbe costare anche 1,20 se però rendi il prodotto “differenziato”, ovvero arricchito da un plusvalore che il cliente vede, sa interpretare». Non tutto deve costare di più, ragiona l’ad M&T: «Ci sono esperienze da 5 euro, altre da 10, e da 15, il punto è dare un equilibrio tra esperienza e prezzo». «Il settore della somministrazione movimenta molta liquidità, anche in periodi di crisi molti locali riescono a restare a galla. Ma secondo gli ultimi dati FIPE ogni giorno chiudono 30 locali in Italia (fonte: Rapporto Ristorazione 2017 dedicato a Gualtiero Marchesi ndr)». La ristorazione è diventata: «Un ambito simile alla cultura, all’entertainment, in cui il cliente ha molta offerta e sceglie in base a ciò che lo interessa in quel momento, c’è un grande turn over, dunque. In sintesi, probabilmente oggi chi sceglie di investire in questo settore deve sapere che la scelta non è per tutta la vita – 20 anni fa se ereditavi un bar lo tenevi per sempre – oggi viviamo in un mondo liquido», dove vale l’effetto Dorian Gray: «Locali nuovi, molte start up». Il food è diventato intrattenimento, del resto chiude Meo: «La Design week è anche food week, con sempre più spesso eventi dove l’idea del mangiare è sempre più centrale».

MATTEO BERTI, DIRETTORE DIDATTICO ALMA E CHEF
«Il primo errore che si compie oggi nella ristorazione è approcciarsi al settore in modo casuale», ne è convinto Matteo Berti, da tre anni direttore didattico di ALMA-Scuola Internazionale di Cucina Italiana: «Occorre personalizzare il locale, non come fosse casa tua, ma affidandosi a professionisti che siano in grado di stabilire quale colore è il più rappresentativo per la tua idea di ristorante, quale deve essere la disposizione della sala, servono persino gli architetti del suono e delle luci». Un altro sbaglio tipico riguarda il food cost: «Se leggi la carta di un ristorante, uno spaghetto al pomodoro non può costare quanto un raviolo» – Berti è chef da 27 anni – «La materia che usi è diversa, in più devi sapere cosa ti fa guadagnare e cosa ti fa perdere, quanto prodotto butti via, quanto ne vendi in un mese». Un’idea ben precisa che deve sempre essere collegata al modo migliore di raccontare il piatto al cliente: «La comunicazione in sala è fondamentale, bisogna sapere quali sono i termini corretti. Per parlare di presidi Slow Food, di Dop, un cameriere deve conoscere le differenze. Un conto è se stai servendo un coniglio di Carmagnola o il peperone crusco. Dunque, come comunicare il cibo in modo corretto è fondamentale: a volte serve la dialettica, per altre magari è più importante puntare sull’esperienza sensoriale». Questo perché, in ogni caso, sottolinea Berti: «La sala traduce il lavoro del cuoco – che difende la prestazione – ma il mio vecchio maestro diceva sempre “la tecnica non è digeribile”». Chi fa questo mestiere deve saper leggere un po’ la psicologia dell’avventore: «C’è il cliente che viene per fare la foto al piatto, chi è un cultore del cibo, altri invece hanno intolleranze alimentari e devi interpretarli, aiutarli nella scelta. Noi in Alma insegniamo proprio questo» – confida il direttore – «la lettura, la costruzione del piatto, il rispetto per le materie prime che compongono i menu, come saper interpretare le ricette. L’esecuzione è solo la parte finale». La vera differenza, che stabilisce un contatto fra cliente e ristoratore, la fa sempre quanto sai parlare del vissuto del piatto. Ma quale la ricetta per essere vincenti, oggi? Lo chef non ha dubbi: «Valorizzare il classicismo». Spesso ci si inventa piatti che non esistono, ecco: «Quello va fatto fare ai professionisti. Bisogna avere una buona conoscenza della tradizione, per esempio la stagionalità di un prodotto, o perché il ragù si chiama così e anche perché lo “vendo” con una tagliatella e non con una pasta normale», occorre esaltare il classico con la conoscenza: «Allora quello che creo non è più opinabile, se conosco le regioni, la storia, la materia prima (i Dop)». In Alma: «Ai cuochi insegniamo ciò che deve sapere il cameriere e viceversa, quale il vino migliore in abbinamento con un piatto. Il “classico” ti permette di essere moderno, per esempio reinterpretando un ragù, togliendo il pomodoro, ma allora sapendo che devi cambiare il tipo di carne!». Un ristorante deve avere un nucleo definito, in tutto: «Un locale che voglia dirsi vincente deve curare anche la pasticceria» – di solito racconta Berti è l’ultima spiaggia – «spesso si cade sul dolce, invece è proprio quello che rimane a tutti. C’è da dire che non tutti si possono permettere un pasticciere interno, ebbene si può chiedere a un consulente che costruisca la carta dei dolci, ma sempre in base all’identità del tuo ristorante».

PAOLA IMPARATO, ESPERTA DI RESTAURANT REVENUE MANAGEMENT
«Per fare ristorazione oggi si deve conoscere la propria identità aziendale », non più attendere che siano i clienti a definirla, ne è convinta Paola Imparato, consulente ed esperta di ristorazione: «Bisogna parlare di posizionamento dell’azienda, ma anche di capacità della stessa di interpretare le motivazioni alla scelta del cliente, a partire dai suoi gusti che sono variabili a seconda del momento». Ci sono persone che nella stessa giornata: «Possono decidere di andare da McDonald’s e la sera stessa uscire con il partner in un locale di fascia alta». Bisogna capire allora che in ogni ristorante si vive un’esperienza di tre tipi, sintetizza la consulente: «1) la pre-experience, quando il cliente decide di recarsi al ristorante; 2) la in experience ovvero quando sei al ristorante e 3) la post experience, basata sullo scambio di opinioni, sempre più spesso anche tramite social. Spesso il ristoratore non conosce le tre fasi in modo assoluto. Curando la prima, però, si potrebbe risolvere l’identità del ristorante, quale il prodotto che stiamo vendendo e a chi». Quando tiene i suoi corsi di formazione (alcuni visibili sul canale www.youtube.com/channel/UC_ Bjtie0sa4y-aoZSOglJXw) si accorge che: «Molti ristoratori sono inconsapevoli », la consulente vede una serie di punti deboli: «Spesso non c’è connessione tra le aree aziendali, o non sono definite, esiste un’area amministrativa, per esempio, ma non quella del controllo di gestione; e il marketing, se c’è, si fa solo sulla fase di in experience, quasi mai sulla pre né tantomeno sulla post. Oramai ci si è accorti che serve un’area di qualità. L’organizzazione aziendale deve essere tradotta, ogni locale deve tenere un fil rouge in tutto ciò che fa, ovvero ci deve essere una corporate identity». Infine: «Nell’area cucina si dà molto lustro allo chef, che è uno dei perni dell’organizzazione, ma la sala oggi ha la stessa importanza». Non è un caso che il grande chef Gualtiero Marchesi riteneva che l’importanza in un ristorante fosse data, ricorda Imparato. «Per il 60% dalla sala e il 40% dalla cucina». Molti invece si basano sulle recensioni: «TripAdvisor è fondamentale», la consulente ammette che il web ranking sia impor tante. «Spesso i potenziali clienti si fanno influenzare. Forse varrebbe la pena regolamentare il sistema obbligando il recensore a caricare l’immagine dello scontrino, così da legare la soddisfazione/ insoddisfazione del cliente all’esperienza avuta, anche in base alle aspettative». Tutti aspetti dell’RRM-Restaurant Revenue Management di cui Imparato è esperta, e che consiste in breve: «Nell’attrarre il giusto cliente al giusto prezzo nel giusto momento – formula più che magica, ma a detta dell’esperta, possibile – Quando si abbassa il prezzo di un prodotto, per esempio, si fanno analisi precise sul target che serviamo o intendiamo servire, si valutano quali siano i momenti in cui la clientela si riesce a distribuire meglio in base alle variazioni di prezzo, intuendo ciò che cerca il cliente, attraverso il marketing ». Quando si attiva il RRM: «Si riesce a rendere duttile un prodotto che non lo è, il ristorante». Questo perché Imparato crede nell’approccio strategico, interno e integrato, non nelle soluzioni esterne: «Nella trasmissione Cucine da incubo, per esempio, cosa succede? Il ristoratore chiama lo chef Antonino Cannavacciuolo, che arriva in sella al suo cavallo bianco, fa le sue considerazioni sul ristorante, si siede per pasteggiare, critica molto (la qualità o il servizio) – solo che il punto per Imparato è che, il più delle volte, alle persone che lo hanno chiamato – manca l’ABC della gestione. Nel format Cannavacciuolo ripristina situazioni di conflitto aziendale, erudisce sui principi cardine dell’igiene, e inizia a cucinare piatti, ma lo fa da professionista con 2 stelle Michelin, che il ristorante non sarà ovviamente in grado di replicare. Insomma “cannavacciuolizzare” l’azienda, non basta – sintetizza Imparato – Occorre rispettare il passato, raccogliere ogni esperienza, concentrarsi sui punti di forza del proprio locale». E ricordarsi, oggi ancora di più, che nella ristorazione c’è un dato fondamentale da sapere: «Lavoriamo sul tempo libero delle persone, alcuni verranno a mangiare nei nostri ristoranti per piacere, altri per business – ma tutti, chiude la manager – ci stanno donando qualcosa di molto prezioso: il loro tempo».

TAG: RICETTE,CUCINA,CARLO MEO,QUALITALY 110,MATTEO BERTI,PAOLA IMPARATO

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