27 Maggio 2014
Mi accingo a trattare un argomento non convenzionale per un ufficio studi nel senso che non verranno presentati grafici e tabelle ma soltanto riflessioni su un tema particolarmente sensibile com’è quello dei controlli fiscali sulle imprese. L’idea mi viene suggerita dalle segnalazioni di alcuni imprenditori oggetto delle “attenzioni” degli ispettori del fisco.
Pagamenti incoerenti
La prima segnalazione riguarda i pagamenti, ovvero il riscontro di incoerenza tra ricevute fiscali ed incassi effettuati con moneta elettronica. Stiamo ai fatti. Ad un ristoratore viene contestato di non aver certificato correttamente i corrispettivi in quanto dal controllo emerge che, in alcuni giorni di attività, ci sono ricevute di pagamenti effettuati tramite carta di credito a cui non corrispondono ricevute fiscali di pari importo. In effetti la check list per gli accertamenti induttivi raccomanda agli ispettori di verificare la corrispondenza tra le ricevute fiscali e gli incassi.
In un ristorante capita di frequente che a fronte di una ricevuta unica vi siano pagamenti frazionati, magari effettuati con strumenti di pagamento differenti (contante, pagobancomat, carta di credito). E’ il caso di tavolate che al momento del conto adottano il cosiddetto “sistema alla romana”.
Ma non solo. Capita anche che a pagare sia un’unica persona che, per ragioni che in questa sede non serve approfondire, decide di utilizzare per una parte contante e per la parte residuale moneta elettronica.
D’altra parte non esiste alcuna disposizione fiscale che impone ad un ristoratore di frazionare, a fronte di un servizio unico, le ricevute in funzione dei pagamenti.
Dinanzi a questa situazione i controllori potrebbero imbattersi in ricevute di carte di pagamento a cui non corrispondono ricevute fiscali. La deduzione “logica” degli ispettori è che quei pagamenti siano stati incassati senza l’emissione della ricevuta fiscale. Un paradosso.
Se tra il controllo e la supposta evasione c’è una buona coincidenza temporale è facile che la memoria del ristoratore sia d’aiuto per spiegare l’incoerenza individuata. Purtroppo accade, come nel caso in esame, che queste contestazioni non riguardino fatti avvenuti nella stessa giornata del controllo ma relativi a giorni e, addirittura, mesi prima. In quanto transazioni commerciali tracciate sono sempre recuperabili.
A prescindere da considerazioni formali sulla validità di controlli effettuati con queste procedure su cui si vedrà nel caso in cui l’impresa decida di seguire la strada del contenzioso, resta il fatto che siamo dinanzi a contestazioni assurde che hanno anche “effetti collaterali” pesanti. Mi riferisco all’applicazione della sanzione accessoria della sospensione della licenza (da tre giorni ad un mese) quando siano state contestate, nel corso di un quinquennio, tre distinte violazioni dell’obbligo di emettere la ricevuta fiscale o lo scontrino fiscale.
In base alla diretta esperienza di alcune imprese potrebbe rivelarsi utile adottare qualche contromisura nel caso in cui si dovesse incappare in controlli come quello citato.
L’accorgimento consiste nel lasciare traccia dei pagamenti frazionati, specificatamente quando sono misti, annotando sulla matrice della ricevuta fiscale la quota del conto pagata con moneta elettronica. In questo modo la memoria della transazione è completa e può essere esibita dinanzi all’eventuale contestazione.
Anche se il problema assume un profilo differente potrebbe essere utile segnare sulla matrice persino quella parte del pagamento effettuato con moneta elettronica lasciato come mancia al personale. Per i motivi esposti pagamenti con queste caratteristiche andrebbero scoraggiati ma sappiamo che nella realtà si verificano.
L'accertamento induttivo
La seconda segnalazione riguarda un accertamento induttivo. Si tratta, per intenderci, del sistema che incrocia la quantità di materie prime acquistate con il numero dei coperti/piatti. In questo caso gli ispettori dell’Agenzia delle Entrate avevano calcolato il numero di coperti senza tenere in alcun conto l’autoconsumo dei lavoratori sia indipendenti che dipendenti.
Il ristorante ne aveva ben sette nell’anno a cui si riferiva l’accertamento. La mancata contabilizzazione dell’autoconsumo veniva giustificata dal fatto che nella lettera di assunzione dei lavoratori non si faceva riferimento alla erogazione dei pasti da parte dell’impresa.
Ma c’è un dettaglio (si fa per dire) di cui gli ispettori non avevano tenuto conto. Si tratta della circostanza, segnalata da Fipe all’impresa accertata, che stabilisce l’erogazione dei pasti in favore del personale direttamente nel CCNL di settore e che, pertanto, smontava la tesi secondo cui l’obbligazione è valida solo se inserita nel contratto di lavoro individuale. Dinanzi a questo colpo di scena, gli ispettori rispondono con un triplo salto mortale. Mentre prima i coperti non calcolati come autoconsumo (ma considerati venduti) venivano valutati al prezzo unitario di 50 euro, dopo venivano “svalutati” a 5 euro (prezzo da mensa). Dinanzi a questo obbrobrio logico all’impresa non rimaneva che la strada del contenzioso. La lezione che viene da questo caso è duplice:
1. l’autoconsumo è un fattore intrinseco dell’attività di un ristorante;
2. l’autoconsumo rientra nelle valutazioni propedeutiche al controllo vero e proprio. Al riguardo la stessa check list è estremamente chiara.
Il tovagliometro
La terza segnalazione riguarda il famigerato metodo del tovagliometro. E’ utile ricordare il contenuto della check list di controllo: “Nella logica presunzione che ad ogni tovagliolo corrisponde, in linea di massima, almeno un “coperto”. Il dato andrà considerato con qualche tolleranza e si dovrà comunque tenere conto dei tovaglioli utilizzati per i pasti dei dipendenti, del titolare, dei familiari e dei soci”.
Dalla teoria alla pratica. Ecco, invece, cosa scrive un ristoratore: “Nel corso dell’accertamento relativo al 2011 sono stati rilevati 24.073 coperti a fronte di 25.764 tovaglioli fatturati dal servizio di lavanderia che utilizziamo, ovvero 1.691 in più per 285 giorni lavorativi, 6 tovaglioli in più al giorno. Faccio presente che nel 2011 oltre a me e a mia moglie socia avevamo 11 dipendenti. Inoltre, i tovaglioli li utilizziamo anche per i cestini dal pane in vimini, per il servizio a tavola e per i secchielli del vino.”
Anche qui il paradosso è evidente. Non bisogna rinunciare, tuttavia, a ricordare agli ispettori che sono tenuti a valutare la parte relativa all’autoconsumo e quella per usi diversi.
struttura del pasto
La quarta segnalazione riguarda sempre un accertamento induttivo ma in questo caso il punto critico sta nella struttura del pasto. Secondo gli ispettori un coperto medio è composto da antipasto, primo, secondo, contorno, dolce, acqua, vino (e coperto). Un altro paradosso che, nel caso in esame, portava a calcolare il prezzo del pasto in 56 euro contro i 31 euro di quello effettivamente consumato dal cliente medio. Le conseguenze, in termini di maggiori ricavi, sono evidenti.
Scrive il ristoratore “ … essendo aperto a pranzo mi devo confrontare con i bar della zona e con una clientela che con un primo piatto ha concluso il pasto. Insomma è un reato se per lavorare cerco di mantenere i prezzi bassi e competitivi?”.
Negli ultimi anni è stata prodotta una gran quantità di documenti che mostrano i cambiamenti degli stili alimentari al ristorante a cominciare dalla riduzione del numero di portate per coperto. Un fenomeno che si è prima diffuso a pranzo ma che oramai ha ampiamente contaminato anche la cena. Tutto ciò è avvenuto sulla spinta di più cause, da quelle salutistiche a quelle economiche. Gli ispettori dovrebbero saperlo.
In conclusione si può dire che dinanzi ai numerosi paradossi che contraddistinguono gli accertamenti induttivi occorre reagire sostenendo le proprie buone ragioni, possibilmente con il supporto di un’adeguata documentazione.
La Fipe si mette al servizio dei propri associati per fornire le informazioni e le conoscenze di cui dispone.
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