14 Agosto 2014
Cucina e sala, due facce della stessa medaglia. Due ingredienti che devono risultare in equilibrio tra loro, due strumenti per il successo del ristorante, che devono essere accordati, suonare rispettando le reciproche differenze ma dando un contributo peculiare al raggiungimento del comune obiettivo: il soddisfacimento del cliente. Ma in tempi di “chef superstar”, di uomini che da soli riescono a incarnare tutti i fattori di successo di un locale, dell’ascesa dell’importanza dell’istrione che si muove tra i fornelli, quasi un detentore della formula magica e irripetibile, la sala ha perduto il suo smalto, è scesa nell’attenzione, si è ridotta a mero palcoscenico sul quale il vulcanico cuoco può dispiegare tutta la sua arte, la sua personalità e, perché no?, a volte la sua sicumera. Senza scendere negli eccessi catodici, con cuochi che, spesso in virtù del loro bel faccino o di una doppia dose di presunzione, si impongono come guru messianici, anche nella ristorazione che si rivolge a un target medio, è sempre più spesso lo chef a occupare la scena, a essere citato, a essere reclamato dai clienti. Nessuna parola sul servizio di sala.
Eppure, rimanendo in ambito televisivo, nella versione italiana del format Hell’s Kitchen interpretato in Uk da Gordon Ramsey, qui da noi chiamato Cucine da Incubo e interpretato dallo chef Antonio Cannavacciuolo, sguardo, barba e corpulenza da Bud Spencer, uno dei fattori di insuccesso di un ristorante è proprio l’incomunicabilità tra cucina e sala. Entrambi convinti di svolgere al meglio il proprio lavoro, entrambi sicuri di doverlo fare “in opposizione” all’altro, con risultati tragicomici che si possono ben immaginare, in particolare durante il rush. Una situazione che, uscendo fuori dalla metafora televisiva, è più diffusa di quanto si creda e, spesso, ha un effetto tellurico sulla tenuta del ristorante, quando il cliente comincia ad avvertire i disagi dettati dal clima avvelenato. «Eppure - spiega Mauro Santinato di Teamwork, società riminese specializzata nella consulenza a ristoranti e alberghi - in qualsiasi ristorante se la cucina è la mente, la sala è il braccio. Due elementi che devono lavorare in sintonia se vogliono ottenere il risultato sperato. Invece, troppo spesso, cucina e sala sono due mondi a sé,
[caption id="attachment_29492" align="alignleft" width="200"] Mauro Santinato[/caption]
chiusi nel loro protagonismo e incapaci di provare empatia l’uno per le esigenze dell’altro. Credo, come sempre, che sia un problema di scarsa professionalità. Ribadisco un concetto che ritengo basilare: la ristorazione non è un business che si può improvvisare solo perché piace cucinare. Esige studio, attenzione, abnegazione. Solo in questo modo si possono cogliere risultati. E non sto parlando solo dei ristoranti di altissimo livello, ma anche di tutti quelli di fascia media».
Ma quanto pesa la sala? È una questione di percentuali. Per alcuni professionisti del settore, il merito del successo va ripartito in parti uguali tra sala e cucina, quindi il canonico fifty-fifty. Per altri, addirittura, la sala è più importante della cucina; è la brigata che crea l’atmosfera, che si interfaccia con il cliente, lo fa sentire accolto, raccoglie richieste e lamentele. «Le persone non vanno al ristorante per riempirsi la pancia -prosegue Santinato- ma per vivere un’esperienza gratificante sotto tutti i punti di vista. Non solo con le papille gustative. Anzi, se le persone vanno al ristorante con grandi aspettative sulla qualità di quanto finirà sui loro tavoli, molta parte dell’attesa la dovranno passare in sala, che deve lavorare come un organismo perfetto con il compito di valorizzare i piatti. Per questo, ritengo che quello che c’è nel piatto rappresenti solo il 30- 40% del successo di un locale; inoltre se la sala non è in grado di lavorare correttamente, anche il migliore chef possibile non riuscirebbe mai a risollevare l’atmosfera compromessa». «La brigata di sala svolge un ruolo molto importante - dichiara Ciro Fontanesi, docente di Alma, il più autorevole centro di formazione della cucina italiana a livello internazionale – che influenza significativamente, nel bene o nel male, tutta l’attività ristorativa. Il personale che si muove in sala deve interpretare la filosofia del locale, deve incarnarla. Inoltre, in pochi attimi deve comprendere la psicologia del cliente, i suoi gusti, i punti sui quali fare leva per costruire un rapporto proattivo e quelli da evitare. Inoltre, è la brigata di sala che deve dettare i tempi di uscita dei piatti e di servizio, elemento molto importante nella valutazione di un’esperienza al ristorante. Secondo i nostri riscontri, il pasto deve essere contenuto in uno spazio di tempo compreso tra l’ora e l’ora e mezza, evitando periodi morti troppo lunghi pur senza pressare i commensali».
[caption id="attachment_29493" align="alignright" width="204"] Ciro Fontanesi[/caption]
Maître, chef de rang, sono figure ottocentesche che sembrano non trovare più posto nel ristorante d’oggi. Il taglio dei costi di gestione ha falcidiato queste professionalità, che rimangono vive solo nei locali di altissimo livello. In tutti gli altri è la passeggiata dello chef, che si reca personalmente presso i tavoli, il massimo grado di empatia che si possa trovare. Di certo, una parte della caduta in disgrazia del maître è determinata dall’atteggiamento del personale di sala stesso, a volte troppo compreso nel proprio ruolo e nelle proprie ampollosità per risultare veramente accogliente e capace di rispondere alle richieste del cliente d’oggi, forse più concreto e meno attento alle formule vuote, prive di contenuto e alle consuetudini tradizionali sempre meno comprensibili dai più. Il maître oggi deve evolvere in una figura più moderna, che maneggi tecniche manageriali e conosca i rudimenti di tutte le funzioni aziendali e conosca il marketing. «La figura del maître rimane molto importante - prosegue Fontanesi - soprattutto nella ristorazione di alta e altissima gamma. Non può quindi rimanere ancorata a schemi del passato, ma evolvere, in linea con i tempi. Oggi lo chef mostra una certa sovraesposizione, è al centro dell’attenzione: tuttavia molti cuochi, seppur di talento, non sono in grado per vari motivi di intessere un corretto rapporto con il cliente, che deve essere mediato da una figura di riferimento. Nei nostri corsi, prevediamo un’attività didattica di 60 ore riservata alle tematiche della sala (accoglienza, mise en place, rapporto con il cliente).La nostra idea è che occorra conoscere le basi classiche per riuscire a esprimere concetti di modernità».
«Eppure oggi - sottolinea Santinato - l’85% dei camerieri sono semplici portatori di piatti, privi di empatia, di orientamento al cliente, della capacità di vendere e di creare una suggestione. Si limitano a servire facendo meno danni possibili, magari sorridendo, magari essendo gentili ma tutto qua. Invece una sala ben formata è composta da professionisti che sanno svolgere bene il loro lavoro, sono in grado di cogliere da pochi dettagli la psicologia del cliente e, così, interpretano al meglio il servizio. Spesso, quando chiedo a un cameriere di descrivermi il piatto, aggiungo una domanda ulteriore, cioè se il cameriere stesso ha assaggiato la pietanza. Ebbene, il 95% degli interpellati mi risponde di no. Certo che se il cameriere non ha assaggiato il piatto, non è stato istruito dallo chef in un briefing, non ha potuto dire la sua, non sentirà quella pietanza come propria e non riuscirà a comunicarla correttamente al cliente, con scarsi risultati di vendita. Una sala ben formata e strutturata - continua il consulente - non è un costo da affrontare, ma è un investimento. Avere camerieri professionali, capaci di prendere correttamente la comanda e che sappiano interpretare la psicologia del cliente, può fare lievitare del 10% il fatturato del ristorante. Prendiamo, per esempio, i dessert: molti clienti vanno al ristorante per assaggiare dessert prelibati, ma giungono a questo momento del pasto già sazi. In questo caso la canonica domanda “volete altro?” è inefficace e i dessert rimangono in cucina. Molto meglio che il cameriere sappia fare una descrizione “emozionale”, capace di solleticare il palato e il cuore dei commensali».
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