28 Agosto 2015
A lanciare l’allarme è il Wall Street Journal: dal 2012 ad oggi i punti di vendita fisici negli Stati Uniti hanno perso il 5% all’anno di traffico tra i cosiddetti millennians, ovvero tra coloro che hanno un’età compresa entro i 35 anni. Una vera e propria emorragia che non può non preoccupare i retailer per almeno tre ordini di motivi. Il primo: la tendenza ha ormai assunto proporzioni più che rilevanti, interessando circa il 14% della net generation. Il secondo: il calo si riferisce a uno dei target a maggiore potere di acquisto ed è perciò destinato ad impattare non poco sui conti degli esercenti. Infine, il terzo: la disaffezione verso i negozi tradizionali riguarda la fascia più giovane della popolazione. In prospettiva, quindi, il fenomeno non sembra solo destinato a durare nel tempo, ma anche a irrobustirsi: è infatti ragionevole immaginare che le nuove generazioni seguiranno il trend. Occorre quindi reagire. Ma come? È innanzitutto necessario fare un passo indietro e individuare i motivi che hanno determinato la frattura tra giovani e negozi. Tra questi, certamente, un ruolo significativo è recitato dall’avvento delle nuove tecnologie e dalla diffusione dell’e-commerce. Ma non solo. I point of sales non paiono infatti essere stati in grado di interpretare efficacemente bisogni ed attese di un consumatore in piena evoluzione.
«Sollecitato da un contesto sempre più multimediale, il consumatore - ha affermato Marco Zanardi, Chief Operating Officer & partner di Realtà Group durante il seminario “La tecnologia al servizio dello shopper” promosso da Popai Italia -, richiede oggi una deeper information. Prova ne è il fatto che nel processo di acquisto vincono le marche in grado di coinvolgere a 360° il cliente e restituirgli quanto serve per orientarsi, capire e approfondire. A fare la differenza insomma è la capacità di fornire indicazioni e dettagli su quanto viene proposto. Indicazioni che però i negozi spesso non riescono a proporre in modo semplice e immediato». Per uscire da questa empasse, il sistema del retail deve quindi ripensare il modo di proporre i prodotti e connettersi con il proprio target. E deve farlo all’insegna della convergenza. «L’edizione 2015 di Nfr (National Retail Federation Annual Convention & Expo, andato in scena a New York lo scorso gennaio, ndr) ha dettato la linea, celebrando un ideale matrimonio tra in-store e online. La scommessa per il settore risiede infatti in una strategia globale capace di abbracciare un approccio più integrato in cui il digitale sia posto al centro dell’acquisto al dettaglio». Una strategia che promette vantaggi su più fronti. Il primo riguarda il cliente, cui viene data la possibilità di amplificare l’esperienza del prodotto, creando percorsi che partono dalle vetrine interattive, interamente occupate da schermi digitali, e proseguono all’interno dei negozi dove scaffali “intelligenti” possono attivare al momento del pick up degli oggetti esposti schermate informative ad hoc e dove le marche possono suggerire possibili abbinamenti attraverso look book posti sulle pareti. Il tutto passando per le potenzialità offerte dagli smartphone attraverso i quali si possono veicolare offerte commerciali in tempo reale e procedere al pagamento grazie a sistemi di connessione diretta con le casse. Fantascienza? Tutt’altro.
Nel processo di acquisto vincono le marche in grado di coinvolgere a 360° il cliente e restituirgli quanto serve per orientarsi, capire e approfondire. Le dimostrazioni sul campo ci sono già. La catena OVS ha, per esempio, allestito nel centralissimo negozio di via Dante a Milano una magic fitting room digitale che offre la possibilità di osservarsi a 360 gradi e di condividere la propria selfie-look, un camerino tecnologico dove se si è sbagliato colore oppure taglia dell’abito scelto, con un semplice touch sullo schermo interattivo si può chiedere a un commesso munito di tablet di portare il capo giusto. L'ingresso del digitale nel pdv si traduce però anche in benefici per l’azienda. «L’utilizzo integrato della tecnologia front e back end - spiega ancora Zanardi - consente di ridurre l’inventory, diminuendo così le superfici sia degli spazi di vendita sia del magazzino ed aumentando esponenzialmente l’assortimento. Nel mondo digitale si può infatti esportare tutta la gamma di prodotti che in quello fisico, per ragioni di spazio, non si potrebbe ospitare. E questo dà modo anche di ricavare aree preziose per inserire corner tematizzati in grado di attrarre il cliente finale».
La strada delle convergenza tra on e offline permette poi di assumere una ingentissima quantità di dati relativi al comportamento del consumatore: Qr code, etichette Rfid, sensori di riconoscimento facciale, I.O.T (internet of things) sono infatti in grado di fornire indicazioni molto preziose ai fini delle attività di marketing. «La big data supply chain - afferma Daniele Tirelli, presidente di Popai Italia - fornisce oggi soluzioni sorprendenti. Occorre però fare attenzione: la qualità e la frequenza dei numeri rilevati non sono sempre omogenee. E mischiare valori provenienti da fonti diverse può rivelarsi un’operazione non corretta. Inoltre, bisogna sempre chiedersi se si è in grado di utilizzare i numeri rilevati. I dati infatti non sono informazioni e le informazioni non sono di per sé conoscenza. Perché questi passaggi infatti si compiano si deve ricorrere a sistemi interpretativi». Un iter per nulla banale, che promette di essere il terreno sul quale di giocherà molta parte della futura evoluzione della digital shopping experience.
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