pubblici esercizi

18 Settembre 2012

Verità e bugie sugli studi di settore

di Luciano Sbraga


Verità e bugie sugli studi di settore

In queste settimane il Dipartimento delle Finanze ha diffuso i risultati di un’approfondita analisi sugli studi di settore relativi al 2010. I giornali hanno dato ampio risalto all’argomento mettendo in evidenza le consuete graduatorie tra i redditi dei diversi settori produttivi e il confronto tra questi redditi e quelli dei lavoratori dipendenti.

Bar e ristoranti hanno avuto quasi sempre l’onore dei titoli non soltanto, ritengo, per la consistenza dei valori di reddito ma soprattutto per ciò che rappresentano nell’immaginario collettivo degli italiani.

Una lettura (quella dei media) suggestiva che suscita forti sentimenti di riprovazione nei riguardi di quelle imprese e di quegli imprenditori che parrebbero non fare il loro dovere di contribuenti. A ciò dobbiamo aggiungere che il taglio degli articoli (ed in particolare dei titoli) evoca l’identificazione tra impresa e imprenditore e, indirettamente, la piccola impresa che opera nei settori del terziario. Il solito refrain che ritroviamo ogniqualvolta si parla di dati fiscali.

è possibile, tuttavia, presentare un’altra lettura di quegli stessi dati non con l’obiettivo di coprire qualcuno o qualcosa, ma per offrire una chiave interpretativa più coerente con la vera situazione delle dichiarazioni fiscali delle imprese italiane, almeno di quelle soggette agli studi di settore ossia con ricavi inferiori a 5.164.568 euro.

Nel 2010 il numero dei contribuenti “Persone fisiche” ammontava a 2.198.039 con volumi di ricavi/compensi dichiarati per 215,1 miliardi di euro e reddito d’impresa e di lavoro autonomo pari a 60,1 miliardi di euro. Le “Società di persone” erano 694.770 unità con ricavi/compensi per 183,6 miliardi di euro e 26,1 miliardi di euro di reddito d’impresa e di lavoro autonomo.

Le “Società di capitali ed Enti” contavano 590.053 imprese, hanno dichiarato complessivamente 399,5 miliardi di euro di ricavi/compensi e 18,6 miliardi di euro di reddito d’impresa e di lavoro autonomo.

Un primo dato che va sottolineato riguarda le distribuzioni di contribuenti, ricavi e redditi per natura giuridica delle imprese. Le “Persone fisiche” costituiscono il 63,1% dei contribuenti, il 26,9% del totale dei ricavi/compensi dichiarati e contribuiscono per il 57,3% al reddito d’impresa e di lavoro autonomo.

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LE SOCIETÀ DI PERSONE

Le imprese più semplici, in definitiva, si caratterizzano per essere numerose, piccole o piccolissime (ricavi medi pari a 97.860 euro) e, ciò nonostante, hanno contribuito per circa il 60% al reddito complessivamente dichiarato, nel periodo d’imposta 2010, dall’intero sistema produttivo a cui si applicano gli studi di settore.

Per le “Società di persone” i valori sono più equilibrati: 19,9% di contribuenti, 23% del totale dei ricavi/compensi dichiarati e 24,9% del reddito d’impresa e di lavoro autonomo.

Ma è tra le “Società di capitali ed Enti” che occorre guardare meglio. Rappresentano il 16,9% dei contribuenti, il 50% del totale dei ricavi/compensi dichiarati e contribuiscono soltanto per il 17,8% al reddito d’impresa e di lavoro autonomo.

Sembra che le imprese maggiori, ossia quelle che più hanno la fisionomia dell’impresa vera, generano importanti volumi d’affari ma modestissimi redditi, quantomeno in termini aggregati.

Nel caso delle società di capitali non congrue si ha un reddito medio negativo pari a 20.300 euro. Eppure ci si stupisce se un “barista” dichiara un reddito medio di 17mila euro e per niente se un “ vero” imprenditore perde soldi anziché guadagnarli. In questo caso, per di più, il confronto con i redditi dei lavoratori dipendenti sarebbe ancor più penalizzante per l’imprenditore.

Si giudica inaccettabile che le “persone fisiche” che esercitano l’attività di bar dichiarino un reddito medio di 16.700 euro, ma non si fa una “piega” per i 15.000 euro dei fabbricanti di mobili, i 14.800 euro dei fabbricanti di materassi o gli 8.300 di chi produce olio di oliva, soltanto per fare qualche esempio. La marginalità economica ci può stare per le attività di produzione, non per quelle dei servizi o del commercio. Lo stesso si può dire a proposito degli effetti della crisi.

In statistica la media è un indicatore grossolano tanto da aver ispirato numerosi aneddoti (il più famoso è quello dei polli di Trilussa).

Se dal reddito medio generale passiamo a considerare quello relativo alle sole imprese congrue non appartenenti alla categoria dei contribuenti minimi (ricordiamo che si tratta della stragrande maggioranza delle imprese) scopriamo che il valore di un bar sale a 22.400 euro (22.000 per le persone fisiche). Sono pur sempre medie ma più precise avendo eliminato parte della variabilità contenuta nei dati generali.

L’ANALISI DEI CONTRIBUENTI

Il grafico in questa pagina fornisce indicazioni sul numero complessivo dei contribuenti e sulla composizione percentuale dei ricavi/compensi e dei redditi dichiarati distinti per macrosettore.

Dall’analisi emerge che il settore dei servizi, nel quale sono ricompresi anche bar e ristoranti, rappresenta il 50,6% dei contribuenti, il 41,6% del valore complessivo dei ricavi/compensi dichiarati e il 45,2% del reddito d’impresa e di lavoro autonomo.

Il comparto manifatturiero, che pure viene citato di rado nelle cronache relative ai dati fiscali, rappresenta il 20,4% dei ricavi/compensi dichiarati contribuisce e meno della metà (9,9%) del reddito d’impresa complessivo.

In conclusione possiamo dire che la lettura dei dati degli studi di settore mette soprattutto in evidenza il più che proporzionale (rispetto ai ricavi) contributo al reddito fornito dalle piccole imprese nella forma delle “persone fisiche” ed il contestuale squilibrio tra incidenza sui ricavi ed incidenza sui redditi da parte delle imprese appartenenti ai settori produttivi manifatturieri.

Viene riaffermata, inoltre, l’imperizia di descrivere il complesso fenomeno delle dichiarazioni dei redditi per mezzo di rozzi valori medi.

TAG: CAFFè DIEMME

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