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03 Marzo 2014Parafrasando le parole dello stilista Karl Lagerfeld (Don’t dress to kill, dress to survive) potremmo dire Don’t dress to look, dress to cook (il vestito non ti serve a metterti in mostra, ma a cucinare).
Perché è indubbio: l’abbigliamento professionale per la brigata di cucina e per quella di sala come pure le divise per chi lavora al bar, in pizzeria o in gelateria devono essere funzionali, pratiche e sicure.
Però sarebbe impietoso, in una società come la nostra, sempre più sensibile al fascino del bello e alle seduzioni dell’estetica, imporre la rigorosa linearità di qualche decennio fa.
A rischio di cadere nell’ovvietà dei luoghi comuni (tipo: «non ci sono più le mezze stagioni» oppure « la fortuna è cieca ma la sfiga ci vede benissimo»), dobbiamo ammettere che anche l’occhio vuole la sua parte. E parliamo tanto dell’occhio del professionista della ristorazione quanto di quello del cliente.
Lavorare con una divisa che assecondi i trend della moda, in termini di modelli, linea, colori e finiture è indubbiamente più gratificante. E non solo per le donne. Anche per gli uomini, specialmente in un momento in cui (come quello attuale) lo chef, sdoganato dai kitchen reality, è diventato una vera e propria star.
I MATERIALI
Così oggi si lavora su una gamma di tessuti molto più ampia di una volta. Ci sono il cotone, certo, e il poliestere, ma anche tante altre fibre tecniche che spaziano dalla microfibra al tencel (ottenuto dall’albero di eucalipto) a varie combinazioni di più fibre. Le preferenze tra un materiale e l’altro sono condizionate dalle mansioni svolte ma anche da fattori culturali e… geografici.
«Il cotone - ci spiega per esempio Luigi Ravazzolo di Egochef srl - va bene soprattutto in Italia e nel bacino del mediterraneo. Ma se ci spostiamo nei paesi del Nord Europa vedremo che ad andare alla grande saranno tessuti con elevate percentuali di poliestere. Sarà il clima, forse, che non richiede necessariamente la freschezza del cotone…».
Tra le novità più recenti vale poi la pena di ricordare la linea eco friendly proposta da Egochef, realizzata in PET secondo un brevetto della Coolmax e caratterizzata da elevate potenzialità traspiranti, ottimo assorbimento e veloce asciugatura. Interessante pure la “riscoperta” di materiali classici, come il denim, tessuto sportivo, fortemente evocativo (in passato era utilizzato per le tute da lavoro), giovane e molto eclettico.
[caption id="attachment_21246" align="aligncenter" width="129"] Alcuni modelli “Travaux en course”[/caption]
Oppure lo stone washed o il cuoio. Particolarmente accattivanti le proposte della francese Travaux en course che ha per esempio scelto di puntare su modelli classici, reinterpretati con l’utilizzo del denim nelle due varianti cromatiche di blue e di grigio, oppure di realizzare grembiuli in cuoio color vinaccia, per i wine bar.
I REQUISITI
Ma quali dovrebbero essere i requisiti ideali per una divisa professionale?
Innanzitutto, per il personale di cucina, la refrattarietà al fuoco. E poi la resistenza a lavaggi frequenti, a schizzi d’olio e a temperature elevate (va in questa direzione, ad esempio la nuova linea Toma dedicata agli chef che offre le migliori performance di lavaggio anche a 95°). Sempre più cura e attenzione infine, viene riposta alla traspirabilità dei tessuti. Particolarmente apprezzati poi quelli che non richiedono stiratura.
COLORI E FANTASIE
È proprio a questo punto che meglio si può sbizzarrire l’estro. Accanto ai classici bianco e nero ecco infatti che – già da qualche anno – gli stilisti hanno aperto al colore, agli accostamenti arditi ai motivi trendy come teschi, pirati, pistole, aragoste, dinosauri (per citare i più estrosi).
Ovviamente sempre in considerazione della tipologia, dello stile, della location e della clientela del locale: modelli più sbarazzini nei locali giovani e informali, più classici in quelli premium.
[caption id="attachment_21244" align="alignright" width="94"] Giacca in tencel di Giblor’s[/caption]
Un’autorità in tema di soluzioni fantasiose e motivi originali sono le creazioni Sara, (vedi foto di apertura) dalle linee svelte in grado di affiancare alle nuance più classiche, romantici motivi fiorati, forme geometriche, cerniere intriganti, pizzi eleganti, pois spiritosi.
Stile diverso per Giblor’s che punta sui due colori natural per eccellenza (sabbia e marrone anche nella versione rigata), ma anche su accostamenti arditi e contrastanti come nero e rosso, polvere e bordeaux, lucido e opaco con giochi di righe a contrasto. Mentre per le divise più cheap non disdegna il tocco vivace dei profili fluo.
[caption id="attachment_21243" align="alignleft" width="219"] Igrembiuli Zagabria e Parigi proposti da Giblor’s[/caption]
FIBRE NATURALI, SINTETICHE E TECNICHE
Le fibre prodotte dall’uomo si dividono in artificiali e sintetiche.
Le artificiali costituiscono la prima generazione e sono realizzate tramite una particolare lavorazione della cellulosa. Con questo sistema l’industria tessile mise a punto la “seta artificiale” che ebbe tale successo da essere presentata all’Esposizione universale di Parigi del 1889, con la Torre Eiffel. Più tardi, comparvero le altre fibre derivate dalla cellulosa: acetato, cupro, viscosa o raion, modal.
La seconda generazione delle fibre realizzate dall’uomo è rappresentata dalle fibre sintetiche, comparse negli anni Trenta.
Alla loro origine c’è il petrolio, da cui vengono ricavate con procedimenti chimici di sintesi. Il primo prodotto fu il nylon, e poi l’acrilico, il poliestere e il propilene.
Le microfibre sono fibre hi-tech, composte di poliestere o di poliammide; si caratterizzano per la particolare sottigliezza e la leggerezza: 10 chilometri pesano meno di 1 grammo.
Grazie a una membrana microporosa la microfibra favorisce la traspirazione ed evita fenomeni di condensazione del sudore.
Il Denim era anticamente realizzato con un ordito in lino e la trama in cotone (oggi interamente in cotone) e si caratterizzava per il suo tipico colore blu. Prende il nome dalla città di Nîmes in Francia, un tempo era detto tela de Nîmes, da qui denim.
In diretta concorrenza con il denim era la tela di Chieri in Piemonte, che - esportata attraverso il porto di Genova - prese il nome blue-jeans, dal termine bleu de Gênes, ovvero blu di Genova.
Stone washed: tela jeans sottoposta a lavaggio con pietre abrasive (come la pietra pomice), per renderla più chiara e conferirle un effetto di “tela usata”.
Il Tencel è una fibra cellulosica naturale derivata dall’essenza dell’albero di eucalipto, resistente come un poliestere, ma soffice come seta e fresco come il lino. Completamente traspirante, non ha alcuna componente chimica aggiunta.
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