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17 Dicembre 2013C’è formaggio e formaggio, e c’è latte e latte. E non stiamo parlando di fresco o a lunga conservazione, intero o parzialmente scremato, ma di tutte le filiere lattiero-casearie minori, rispetto a quella della vacca, quantomeno nei numeri.
Perché dietro ai tanti piccoli allevamenti ovini, caprini e bufalini italiani si celano tradizioni di grande integrazione tra il territorio e le sue realtà produttive. Anche queste piccole produzioni, poi, contribuiscono ad arricchire il portafoglio dell’offerta casearia nazionale, anche con produzioni Dop e ad alto valore aggiunto.
Parlando di numeri, è ovvio, la sproporzione è grande. Secondo i dati Assolatte nel 2012, delle oltre 13.800.000 tonnellate di latte, meno di un milione – complessivamente – deriva da allevamenti diversi da quelli vaccini.
Dal latte destinato alla caseificazione (oltre 10 milioni di tonnellate) si ricava circa un milione di tonnellate di formaggi, di cui poco meno di 200.000 da latte non esclusivamente vaccino e, di queste, 75.000 sono prodotti con latte misto.
La filiera più produttiva è quella ovina, seguita da quella bufalina e caprina.
Non è una bufala!
Secondo le stime di Assolatte, nel 2012 sono state prodotte 50.000 tonnellate di formaggi di latte di bufala, essenzialmente mozzarella: una produzione concentrata soprattutto nell’area del salernitano e casertano. Nella maggior parte dei casi si tratta di piccoli caseifici, spesso a conduzione familiare fronte strada, che vendono direttamente nello spaccio aziendale, anche sfruttando l’elevato flusso turistico della zona, la limitata quantità di formaggio che producono.
Non mancano però alcune importanti realtà industriali, che garantiscono i maggiori volumi e che hanno permesso di portare questo grande prodotto sugli scaffali della grande distribuzione, spessp grazie ad accordi con noti brand nazionali.
Purtroppo la produzione campana DOP deve confrontarsi con il ricorrente problema della diossina, che sale troppo spesso all’onore delle cronache. Secondo Assolatte, però, si tratta di un problema mediatico, non reale. Anche quando, alcuni anni fa, per la prima volta si parlò di diossina, e i caseifici locali accettarono di fermare le produzioni, per permettere tutte le verifiche del caso, le analisi dimostrarono che non c’era alcun rischio per la salute. Una bufala: titolarono i giornali dell’epoca! Ciò non significa che non ci siano alcune aree a rischio, ma si tratta di situazioni estremamente circoscritte.
E le imprese locali sono le prime a chiedere che si faccia chiarezza, individuandole e bonificandole.
Piccoli ruminanti, poche esigenze
Come la filiera bufalina, anche quella ovina è molto concentrata a livello geografico: la maggior parte delle quasi 59.000 tonnellate di formaggi di pecora viene prodotta in Sardegna, dove si trovano i principali centri di produzione del Pecorino Romano e del Pecorino Sardo. Poi c’è la Toscana, per il Pecorino Toscano, di Pienza e le caciotte, formaggi misti di pecora e vacca, il Lazio, le Marche e un po’ tutto il Mezzogiorno.
Anche in questo caso la filiera è costituita principalmente da piccoli produttori di latte, spesso riuniti in cooperative. Non mancano alcune aziende di grandi dimensioni, che portano i propri prodotti sugli scaffali della GDO e all’estero.
Non tutti sanno infatti che il Pecorino Romano è uno dei formaggi più apprezzati negli Stati Uniti, dove arriva il più del 40% della produzione nazionale: circa 10.000 tonnellate all’anno, per un valore che sfiora i 70 milioni di euro.
Se gli allevamenti ovini sono diffusi soprattutto nelle aree appenniniche, quelli di capre, oltre che nelle Isole maggiori e al Sud, si trovano anche su Alpi e Prealpi, insomma in tutte le zone più povere di risorse, dove la capra, poco esigente, è spesso il solo animale allevabile. La filiera caprina è molto articolata, per la maggior versatilità della materia prima. Quello di capra è disponibile sul mercato anche come latte alimentare e non mancano esempi di utilizzo di questa materia prima per creare gelato, yogurt, biscotti... In ogni caso dalle 142.000 tonnellate di latte di capra prodotte negli allevamenti italiani nel 2012 sono state ricavate 26.000 tonnellate di prodotti, di cui 10.000 di formaggi.
Origini diverse, problemi comuni
Al di là delle specificità di ogni filiera, ci sono elementi comuni, non solo tra i formaggi “minori”, ma tra questi e la grande famiglia dei vaccini.
Le strutture delle filiere produttiva, per esempio, non sono molto diverse.
Le grandi aziende sono poche: la grande maggioranza è fatta di piccole e medie imprese, molte delle quali si limitano alle fasi produttive, affidando i propri formaggi ad aziende più strutturate dal punto di vista commerciale, che si preoccupano della stagionatura, del confezionamento, dell’eventuale accesso ai mercati internazionali.
Un sistema molto articolato, quindi, che fino ad ora ha permesso mantenere saldi i legami con il territorio.
Un altro fenomeno comune è il terzismo: spesso, infatti, alcuni grandi brand, per allargare la propria gamma verso produzioni più locali, stringono accordi di co-packing con i caseifici più piccoli, permettendo così anche alle piccole produzioni di accedere a mercati più complessi e strutturati, come il retail. Sì, perché gli scaffali della distribuzione sono un obiettivo che solo i caseifici industriali, per quanto piccoli, possono raggiungere: la Gdo impone regole molto severe in termini di qualità, sicurezza, omogeneità delle partite, shelf life... Il fatto che un caseificio trasformi latte di capra, di pecora o bufala non è certo sufficiente a ottenere un trattamento meno severo. C’è poi la questione dei tagli prezzo: il formaggio è una delle categorie più promozionate in grande distribuzione e la pressione promozionale è in aumento. L’alternativa, per i piccoli e piccolissimi, è quindi quella di ritagliarsi uno spazio nei mercati locali o nella ristorazione.
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