caffè
11 Aprile 2013Un illuminante episodio accaduto a Taiwan dimostra che le marche italiane devono controllare i propri clienti esteri per evitare cadute in termini di qualità
[caption id="attachment_5792" align="alignleft" width="150"] Carlo Odello[/caption]
Arrivato di sabato pomeriggio a Taipei, trovo in città una leggera pioggia che va ingrossandosi. Piove spesso qui a Taiwan. Il mio interprete Raffaele scherza sempre su questo punto, raccontandomi che lui viene dalla città più piovosa del paese, altro che Taipei.
Arrivato in hotel mi dicono che purtroppo non è ancora ora di check-in. Devo attendere.
Taipei è un piccolo Giappone dove però parlano cinese, non è mia intenzione rompere l’ordinato assetto dell’isola. Raffaele, che a dispetto del nome italiano è assolutamente taiwanese, mi propone di andare a visitare una buona amica che ha appena cambiato lavoro. Mi sembra una bella idea, con tre cambi di metrò e venti minuti siamo lì.
Il locale è nuovo, di quelli che sanno unire la delicatezza asiatica al tocco moderno che si può trovare in locali analoghi negli Stati Uniti (gli americani si sa, sono bravi a esportare i loro format). Tuttavia non fa parte di nessuna grande catena e serve un espresso di nota marca italiana. La mia amica ci tiene che assaggi il caffè e le dia un parere. Dire di no sarebbe scortese in Italia, figuriamoci in Asia, dove la forma si fa sostanza. E poi in fin dei conti sono almeno 24 ore che non prendo un caffè come si deve (ma perché in aereo servono sempre quel brodo scuro?).
Qualche istante di attesa e ci viene portata una tazzina di nota marca italiana. Il sorso conferma la vista: è sottoestratto. In bocca aquoso e amaro, al naso non perviene granché. Si sa: questo è un caffè delicato già a una piena estrazione, sottoestrarlo significa distruggerlo. Il problema non è la qualità del prodotto - in Italia capita senza grandi difficoltà di bere di peggio - quanto dirlo alla mia amica. Con il suo delicatissimo sorriso asiatico mi chiede infatti cosa ne penso. E io, con tutta la prudenza di cui sono capace, le spiego il problema. E lo faccio in termini tecnici perché tra l’altro lei è un’assaggiatrice dell’Istituto Internazionale Assaggiatori Caffè.
Business is business ma...
Lei annuisce: è sottoestratto e mi spiega il perché. In breve, il titolare del locale non permette a nessuno di regolare la macinatura, probabilmente terrorizzato dalla possibilità che si possa sprecare del caffè. E in un paese in cui il minimo che puoi trovare è la pioggia, arrivando sino ai tifoni in estate, la corretta macinatura assume un rilievo importante.Tra me e me rifletto che il punto non è il proprietario del locale che impone questo diktat inderogabile. Il punto è una marca italiana che dovrebbe probabilmente controllare maggiormente cosa avviene nei locali in cui distribuisce il proprio caffè. Business is business, ma non controllare cosa fanno i propri clienti in un mercato tumultuoso come quello taiwanese vuol dire allinearsi alla qualità mediocre delle catene americane e giapponesi che arrivano sempre più in forza sull’isola.
La bella notizia è che intanto fuori ha smesso di piovere e posso riguadagnare la strada verso l’hotel. Il sottoestratto mi ha dato il colpo di grazia: sono davvero pronto a godermi la mia stanza.
L’autore è Consigliere dell’Istituto Internazionale Assaggiatori Caffè e Amministratore del Centro Studi Assaggiatori
www.assaggiatoricaffe.org
Chi fosse interessato a contattare l’autore può farlo scrivendo a: carlo.odello@assaggiatori.com
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A cura di Matteo Cioffi
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