bevande
14 Ottobre 2015Quali sono le tendenze che si stanno affermando nel mondo della ristorazione? Dalla strada all’haute cuisine, dalla tecnologia più estrema al più puro veganesimo, dal km zero alle influenze dall’altro capo del mondo, tutto viaggia in una direzione fatta di varietà, talento, sostenibilità, contaminazione, innovazione. Proprio come il mondo in cui viviamo.
[caption id="attachment_83652" align="alignleft" width="300"] Il design futuristico del Sublimotion[/caption]
Abbiamo già parlato di stampanti 3D in cucina, ma mai come oggi la tecnologia è entrata nel ristorante, lato cliente, su due fronti: comunicativo ed esperienziale. Gli anglosassoni la chiamano “Guest Facing Technology” e comprende tutte quei dispositivi (in genere app) che consentono al ristoratore di interagire con il cliente prima (prenotare il tavolo o l’intero pranzo), durante (chiamare al tavolo il cameriere o integrare l’ordine, usare tavoli interattivi per giocare o ordinare, consultare la lista dei vini, giocare o leggere riviste nell’attesa, pagare con dinamiche social) e dopo (mantenersi in contatto tramite offerte o comunicazioni). Con la tecnologia oggi si fa anche design “immateriale”, grazie a digital signage e mapping che trasformano radicalmente l’ambiente durante il pranzo, anche in concerto con il piatto servito, come avviene a Sublimotion del bistellato Paco Rancero ad Ibiza. Al Richtree Market Restaurant di Toronto, pavimenti e tavoli con immagini controllate dai movimenti dei commensali trasformano l’attesa del pranzo in un’esperienza che finora si poteva sperimentare solo nei musei della Scienza più avanzati. I Millennials e i nativi digitali impazziscono, purché tutto ciò non vada a scapito del “piatto” principale: il cibo!
[caption id="attachment_83653" align="alignright" width="300"] Alcune creazioni di Simone Salvini, bandiera dell’alta cucina vegetariana[/caption]
Lo chiamano Wonderfood, Superfood, e ci stanno provando, gli anglosassoni, a sdoganare i 1400 tipi di insetti commestibili, proteine del futuro più sostenibili della carne allevata e anche più sani. Negli USA sono già in vendita nella forma “nascosta” di snack e farine. “Gli insetti sono mangiati da millenni, forniscono proteine facilmente assimilabili e non hanno grassi saturi; certo io per scelta vegetariana non li mangio” spiega Simone Salvini. “Anche le alghe, miniera di sali minerali, fanno parte della nostra cultura: i romani le usavano come concimi per arricchire di iodio il terreno”.
[caption id="attachment_83655" align="alignleft" width="300"] Andrea Berton[/caption]
“Le formiche? Le ho assaggiate, hanno un gusto simile a zenzero e limone. La barriera è solo psicologica, sono alimenti sani. In futuro li userò? Perché no, la cucina deve evolvere, guardare avanti” sintetizza Andrea Berton. Rene Redzepi, per quattro volte numero uno al mondo in trasferta lo scorso gennaio a Tokyo con il suo Noma, è tornato a inserire insetti (formiche) in menù. Di alghe e licheni invece è costellata la sua strada verso il tetto del mondo.
[caption id="attachment_83657" align="alignright" width="211"] Antonia Klugmann[/caption]
“Piuttosto che dagli insetti sono attratta dalle alghe, che trovo piùinteressanti dal punto di vista visivo. Quando lavoravo a Venezia usavo l’alga kombu, tipica dell’Estremo Oriente. Hanno gusti intriganti, il problema maggiore oggi è la reperibilità” dice Antonia Klugmann dell’Argine di Vencò. Se alghe e insetti sono i generi più promettenti, ogni anno arrivano novità in cucina. Cibi usati da culture lontane che si rivelano per le loro proprietà salutistiche e approdano ai nostri mercati: dal bok choy alle bacche di goji. Tutt’altro filone è quello dei cibi “da laboratorio”. Secondo Mark Post, ideatore dell’“hamburger in vitro” creato in laboratorio partendo da cellule prelevate da una mucca (viva), tra 5/7 anni sarà possibile produrre su larga scala carne identica all’“originale”, che, a causa degli allevamenti che assorbono troppa acqua ed energia e all’aumento della popolazione mondiale, sarà destinato a diventare “cibo di lusso”.
La salubrità di frutta e verdura per la salute è ormai fatto noto, e il 9% degli italiani ha scelto una dieta vegetariana secondo Gfk Eurisko. Abbiamo chiesto di parlarci di vegetarianesimo 3.0 a un occupatissimo Simone Salvini, bandiera dell’alta cucina vegetariana presissimo tra una nuova apertura a Macerata, l’apparizione in trasmissioni tv, i suoi corsi di cucina e il ristorante Berberè al padiglione biodiversità di Expo, per il quale ha curato la cucina vegetariana. Lui che si è avvicinato al vegetarianesimo passando per le filosofie orientali e l’ayurveda, ha le idee molto chiare in proposito. “Non siamo più nella dimensione della moda, siamo in piena accelerazione. Stanno nascendo tanti locali e anche i top chef, da Alaimo a Crippa, stanno riducendo sempre più le proteine animali in menù, pur rimanendo ristoranti “classici”. Una maggiore attenzione alla salute, ma anche ragioni etiche e religiose fanno sì che il movimento abbia sempre più successo. Attenzione però: la cucina vegetariana non deve essere punitiva ma piuttosto buona, golosa, leggera, curiosa, fatta di contrasti a livello di consistenze e colori. Al di là delle scelte etiche, è anche allegria, colori e natura”. E questo varrà sempre più anche per le altre cucine “free from” che si stanno diffondendo, a causa dell’impennata delle intolleranze alimentari: senza glutine e senza lattosio.
“Sprecare sempre meno e utilizzare il 90, il 100% di un prodotto deve essere per noi cuochi un modus operandi” dice Andrea Berton, chef stellato basato a Milano. “Se si conoscono le lavorazioni e le caratteristiche di un prodotto, se ne possono usare tutte le parti; ad esempio la buccia di patata può essere fritta”. Una filosofia che sta contagiando ormai il mondo del food a tutti i livelli, dalla grande distribuzione (con la legge francese che impone il riutilizzo totale degli alimenti invendibili) alle campagne governative verso il consumatore, “grande sprecone”. Il tristellato Massimo Bottura al Refettorio Caritas a Milano cucina cene con gli scarti di EXPO. E sono sempre più i ristoranti “zero-waste”: dall’Èvviva di Riccione di Franco Aliberti al Silo di Brighton, che coltivano, compostano, riutilizzano le materie prime usate in cucina.
[caption id="attachment_83659" align="alignright" width="285"] Cristina Bowerman[/caption]
“Se non è questo sarà il prossimo, ma è indubbio che sta arrivando l’anno delle donne, che in cucina hanno una presenza sempre più importante. Ci sono esempi di grandi cuoche come Dominique Crenn (due stelle Michelin a San Francisco, ndr) che mi piace molto e fa una cucina davvero moderna. Siamo pronte ad uscire dalla “particolarità” e giocarcela alla pari con gli uomini”. Parola di Cristina Bowerman, chef stellata e prima donna chef ambassador Expo (da poco raggiunta nel “team” da Viviana Varese). “Non penso che esista una cucina “al femminile”, ogni cucina è il risultato degli studi, delle esperienze, degli incontri di una persona, ma ancora esistono molti pregiudizi ed ostacoli nell’assumere uno chef donna “in età fertile”. Siamo come milioni di formiche che non hanno ancora organizzato il loro formicaio perché diventi il numero 1 al mondo”. O, quanto meno, che se la giochi alla pari. Fare networking è fondamentale per dare una svolta al sistema, e le donne stanno iniziando a farlo come mostrano gli esempi del Parabere Forum e del Jubilee organizzato in USA da Cherry Bomb, bimestrale che parla di donne e food. “Incontrarsi, fare rete aiuta. È importante avere modelli femminili, quanti più ce ne sono tanto più diventa facile. A marzo a Bilbao Maria Canabal ha organizzato il primo Parabere, “forum gastronomico di donne per le donne”, che si ripeterà l’anno prossimo. Sono convinta che il peggio sia passato, ora il percorso per le donne è in discesa”.
[caption id="attachment_83660" align="alignleft" width="300"] Elsa Viana[/caption]
Dai kebab gourmet che nascono nei quartieri trendy di Londra agli chef creativi come il sudafricano Peter Tempelhoff, dopo l’era delle cucine asiatiche e del Sudamerica (Perù e chevice in primo piano al momento), la Next Big Thing arriverà dal continente africano. Che dopo secoli di miseria e sfruttamento sta rialzando la testa, con alcuni Paesi in fase di grande sviluppo economico. Tra questi, l’Angola: “C’è molto interesse per la cucina africana, perché è saporita, piena di colori, odori e gusti diversi, e perché partendo da ingredienti “europei” riesce ad ottenere risultati completamente diversi” ci dice Elsa Viana, apprezzatissima chef del ristorante del padiglione Angola a Expo. Ha imparato a cucinare da mamma e nonna, che però facevano cucina portoghese. La cucina africana l’ha scoperta da adulta, tornando nel suo Paese, “ed è stata una rivelazione: era ricca, interessante, varia”. Gli elementi che accomunano le varie cucine africane sono ingredienti quali l’olio di palma, la patata dolce, e l’uso delle foglie: di manioca, di ocra, di zucca, “Poi ci sono le farine di vari cereali, dal mais alla manioca: le usiamo anche per fare polente, una diversa dall’altra”. Il gioco in una cucina come l’angolana, a detta di Elsa Viana, è tutto fatto di rimandi e influenze, che rimbalzano da un lato all’altro del mondo: “Ad esempio la cucina della mia città, Benguela (lei vive tra qui e il Portogallo, con il marito tedesco) è simile a quella di Salvador de Bahia, perché gli schiavi africani trasportati in Brasile venivano dall’Angola. Abbiamo il tempura, piatto in origine portoghese, ma lo facciamo con fagioli freschi e granchietti”. Un’esplosione di sapori contaminati e reinventati che ci aspettiamo di vedere presto anche nelle nostre città, per ampliare la gamma assai ristretta delle cucina africane oggi disponibili. Le quali presentano una versatilità che dall’alta cucina (che Elsa è andata a studiare a Parigi) potrebbe riversarsi anche in chioschi e strade: che ne direste del capretto alla griglia con pan di manioca fermentata in foglie di banana, per cominciare?
È l’altra faccia della medaglia rispetto ai ristoranti che vendono fiori, libri o prodotti del territorio: oltre lo street food, oltre la strada il cibo, grande icona contemporanea, segue il cliente ovunque, anche durante la spesa e lo shopping, entrando negli spazi retail. E spesso “tira” di più che il prodotto principale, come è successo al flagship store di National Geographic a Londra. Antesignano in questo senso è stato il ristorante della Rinascente in piazza Duomo a Milano, con vista sulle guglie. Ma recentemente il food è entrato anche nei saloni di bellezza (a Milano c’è Bahama Mama, crossover tra boutique, caffè e beauty salon) mentre al supermercato Albert Heijn XL di Eindhoven ci si può sedere e ordinare una pizza, un sushi o un’insalata.
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