pubblici esercizi
16 Gennaio 2018Da re della tavola chic e blasonata da proporre in pochi piatti in ristoranti stellati o votati per territorio, a eccellenza made in Italy spendibile a tutto tondo, dall’antipasto al dessert, dal finger food all’apericena, cui vuole dare quel tocco in più: è questa l’evoluzione che sta vivendo sua maestà il tartufo. Che scende tra il popolo e si democratizza, anche grazie al fatto che di tartufi ne esistono più tipologie meno pregiate ma più versatili rispetto al blasonatissimo bianco. Complice della “new wave” di questo tubero un po’ misterioso, difficile da trovare perché gelosamente custodito dalla terra e capace, nelle varietà più pregiata, di raggiungere la cifre di 450 euro l’etto (quotazione 2016 del bianco d’Alba) è probabilmente la voglia di mangiare bene che dilaga, l’affermarsi del fenomeno foodie, il cibo ormai visto come nuovo lusso cui dedicare sempre più tempo, denaro e passione. Tanti gli chef che hanno iniziato a sperimentarlo in nuovi accostamenti, come Andrea Aprea del Park Hyatt di Milano che abbina il tartufo nero alla carne ma anche al pesce e Cristian Avenanti, del Grand Hotel Entourage di Gorizia, che lo propone con l’aragosta.
LE MILLE VESTI DEL TUBERO PIÙ PREGIATO
Già perché il tartufo, con quella sua personalità così distintiva e prorompente, si presenta veramente in mille forme, anche per la conservazione: c’è surgelato, intero o a scaglie, sotto sale, in salamoia, oppure in salsa, con olio Evo (la più pregiata) o funghi, burro e formaggio o panna. Ogni “forma” ha un uso diverso in cucina. Sempre più spesso, poi, viene inserito in prodotti finiti quali cioccolato, formaggi freschi, soia (per il mercato cinese), gelato e anche pizza. Un prodotto dunque prezioso ma anche versatile nelle sue varie declinazioni, con una produzione però, come tutti i prodotti della terra, estremamente soggetta al clima e alle piogge. In futuro dunque la produzione potrebbe essere “aiutata” dalle piante micorizzate. Ovvero piante le cui radici sono esposte in laboratorio alle spore. Una volta attaccate dal fungo, che cresce in simbiosi con la pianta, vengono messe a dimora in montagna. E dopo cinque anni, se tutto va bene, si recuperano i preziosi frutti.
DAL PIEMONTE ALLA SICILIA, A CACCIA DEL TARTUFO
Un mito da sfatare è che il tartufo si trova solo ad Alba (il bianco) o a Norcia (il nero): in realtà l’habitat di questo tubero (le foreste di querce, ma anche salici, noccioli e lecci) è spesso presente in tutta Italia, dal Piemonte alla Sicilia. Quel che cambia è la tradizione, perché per trovarlo servono due elementi fondamentali: i “cavatori”, spesso persone della zona che vanno “a caccia” per hobby o per lavoro, e naturalmente i cani da tartufo opportunamente addestrati. Senza, i funghi del genere Tuber Micheli, completamente interrati, non si riesco a trovare. Anzi, lo scopo “evolutivo” del forte odore avrebbe lo scopo di attirare alcuni animali dall’odorato fino (cani, maiali, cinghiali) perché trovino il tartufo e lo portino alla luce, permettendo alle spore di diffondersi. E alla specie di perpetrarsi.
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