30 Ottobre 2019
C’è Meg, classe 1983, arrivata dal Camerun nel 2003 in Italia, che si è innamorata della professione di barlady dopo che, rimasta orfana, ha iniziato a lavorare nel settore H.O.R.E.C.A. per pagarsi gli studi all’università.
C’è Alì, 19enne senegalese arrivato ad Alghero tre anni fa con la mamma senza conoscere una parola d’italiano, che da allora con tenacia e determinazione si divide tra la scuola e il lavoro.
È l’amore la leva che invece ha portato in Italia il venezuelano Luis, oggi titolare del restaurant cocktail bar 1492 Al Bramante a Vigevano (PV).
Imprenditore di successo è pure il cinese Luca, proprietario di ben tre cocktail bar a Milano (Chinese Box, Bob e Agua Sancta), sbarcato a Milano da Shangai a soli 4 anni con tutta la famiglia, nonna inclusa.
E un’ottima carriera l’hanno conseguita anche Jay, arrivato a 6 anni a Varese dalla Costa D’Avorio e da 5 barman di ElitaBar di Milano e il peruviano César, giunto da Lima a Milano a 10 anni, da 8 mesi head bartender al Bob di Milano.
LUIS HIDALGO
Classe 1975, nato a Valencia in Venezuela, è arrivato in Italia nel 2006 dopo aver lavorato a Miami e nella Repubblica Dominicana come F&B manager. Un anno fa ha aperto in società il restaurant cocktail bar 1492 Al Bramante a Vigevano (PV)
Perché sei venuto in Italia?
Per amore! Volevo crescere vicino ai nonni materni la figlia avuta dalla mia ex ragazza italiana conosciuta quando lavoravo ai Caraibi.
Problemi con i documenti?
No, perché ci siamo sposati e di conseguenza ho ottenuto la cittadinanza italiana.
Che cosa consiglieresti agli immigrati che arrivano oggi in Italia?
Se volete integrarvi dovete imparare l’italiano e quindi frequentare gli italiani. Io sono arrivato senza sapere una parola e i primi tre mesi dietro al bancone sono stati un incubo! Ero a disagio, perché non capivo le ordinazioni e se il cliente non parlava inglese io non riuscivo a comunicare. Che, per un barman, non è cosa da poco. Così mi sono dato da fare: ho studiato la lingua e nel giro di sei mesi potevo parlare già quasi di tutto con un buon numero di vocaboli.
Oggi su cosa sei concentrato?
Sul consolidamento del 1492 Al Bramante: per quanto riguarda i cocktail, ho impostato la carta nel segno di una miscelazione originale ma beverina, puntando su una decorazione di grande impatto. Quanto al ristorante, abbiamo appena lanciato il nuovo menù che si concentra su grigliate di carne e pesce, senza scordare una proposta hamburger che qui è molto richiesta.
CÉSAR ARAUJO HUARCAYA
Nato il 25 gennaio 1987 a Lima, a 10 anni si è trasferito dal Perù a Milano. Da 8 mesi è head bartender al Bob di Milano.
Perché sei venuto proprio in Italia?
Furono i miei genitori a decidere di emigrare in Italia alla ricerca di un livello di qualità di vita più alto di quello che offriva all’epoca il Perù.
Ma parlavi già italiano?
No, ma ho imparato la lingua in fretta perché sono andato subito a scuola.
Nessuna difficoltà ad ambientarti?
A dirla tutta, i primi due o tre mesi furono tosti. Dal momento che non parlavo e non capivo l’italiano, non ero mai invitato a giocare. E ricordo ancora con una certa tristezza quando, durante una partita di calcio a scuola, un compagno mi aggredì verbalmente dicendomi: “peruviano di ***** tu qui non giochi più”.
Avete avuto problemi per il visto di soggiorno?
Io no perché miei genitori vennero in Italia prima di me e chiesero in seguito il ricongiungimento familiare, quindi al mio arrivo i documenti erano già in regola.
Dicci la verità, essere peruviano ti ha aiutato a emergere nel mondo dei bartender?
Mi ha aiutato a far scoprire ai miei clienti alcuni prodotti sconosciuti in Italia.
In generale pensi che i peruviani siano ben accolti in Italia?
Sì. Io per lo meno ho percepito disponibilità e curiosità, sia da parte dei colleghi che dai clienti.
Che cosa ti manca del tuo Paese?
Il cibo e il mare.
E che cosa ti piace dell’Italia?
Tutto, sopporto a fatica solo la poca informazione che c’è su alcuni argomenti.
Infine, dal punto di vista economico sei stato trattato come i colleghi italiani?
Assolutamente sì.
LUCA HU
Classe 1980, nato a Shanghai è arrivato a Milano all’età di 4 anni
È stato difficile ambientarti a Milano?
No. Anzi. Mi sono integrato immediatamente senza mai sentirmi straniero in terra straniera. E nonostante all’inizio non parlassi italiano, ho imparato velocemente la lingua. Devo dire che ho bellissimi ricordi del periodo delle elementari e delle medie. Avevo una bella compagnia di amici, che in buona parte frequento tutt’oggi. Secondo me gli italiani sono un popolo davvero ospitale e accogliente verso lo straniero.
Mai stato vittima di forme di razzismo?
Mai di gesti gravi o di violenza fisica. Mi è capitato, e solo di rado, di sentirmi dire da ragazzino frasi del tipo: “Cinese di ***** torna a casa tua”, ma nulla di più. E credo che fossero manifestazioni di ignoranza più che di vero razzismo.
Che cosa ti manca della Cina?
Nulla. Dopo 35 anni di vita a Milano, mi sento più italiano che cinese per abitudini e costumi. Amo andare in vacanza in Cina, ma viverci per me sarebbe faticoso. Tra l’altro, il caffè e l’acqua in Cina sono terribili!
Perché hai deciso di fare il barman?
Premessa necessaria: dopo le medie avrei voluto fare il liceo artistico perché disegnavo molto bene, scrivevo poesie e sognavo un lavoro creativo, ma mio padre si oppose. Ma quando a 16 anni ho iniziato a lavorare come cameriere e ho scoperto l’universo degli American Bar ho capito che il settore del bere miscelato rappresentava per me l’opportunità per dare sfogo alla mia creatività per lavorare a contatto con le persone.
E come sei diventato un imprenditore di successo?
Con impegno, determinazione e tenacia. Un proverbio cinese recita: anche se i soldi piovono dal cielo, per averli devi comunque andare a raccoglierli. Ecco, io non mi fermo mai e do il massimo sempre. Perché non è importante essere meglio degli altri, ma è essenziale migliorarsi ogni giorno. E non basta impegnarsi sul lavoro, bisogna anche continuare a studiare.
I tuoi prossimi impegni?
Gestire al meglio le mie tre attività. Oltre allo storico Chinese Box, che nel 2019 compie 20 compleanni, l’anno scorso ho aperto il Bob Milano, in zona Isola, un locale di ricerca con cocktail creativi e raffinati. E da poco, insieme a Fabio Morelli, ho lanciato Agua Sancta, un localino in corso Garibaldi specializzato in cucina e distillati messicani.
MARGUERITE EL MBIMBEY
Nata il 6 febbraio 1983 a Douala in Camerun si è trasferita a Torino a 20 anni e da 13 lavora nel mondo del food&beverage
Che cosa ti ha portato in Italia?
L’amore per l’arte, l’architettura e la cultura. Provengo da una buona famiglia e anche se io non ho mai goduto del benessere economico dei miei avi, una volta terminato il liceo ho potuto trasferirmi a Torino per frequentare l’università. Mi mancano quattro esami per laurearmi in Architettura
E come ti sei avvicinata al mondo della mixology?
Dopo la morte, a breve distanza, di papà e mamma la mia situazione economica è diventata difficile. Così per pagarmi gli studi ho iniziato a lavorare come cameriera in un ristorante francese e, in seguito, in un ristorante italiano dove mi sono appassionata al mondo del vino. Infine, sono approdata in un cocktail bar in cui ho scoperto la passione per la mixology. Tutto ciò risale a diversi anni fa, ormai. Per farla breve, non ho terminato l’università per adesso (ma non escludo di tornare a studiare). Ho seguito diversi diversi corsi per specializzarmi come barlady e sommelier. E da allora ho lavorato in diversi locali locali di Torino, e non solo.
Essere una donna del Camerun di bella presenza ti ha aiutato nella carriera di barlady?
No, la bellezza a volte è un boomerang. Il mondo dei cocktail bar è, per lo più, in mano agli uomini e solo pochi di loro credono che una donna possa essere allo stesso tempo bella, sveglia e preparata. Figuriamoci se poi hai la pelle nera! Ho dovuto dimostrarlo. E non è stato facile. Sono stata trattata con sufficienza, arroganza e presunzione. Non hai idea di quante battute sessiste, a volte razziste, abbia subito da clienti e colleghi. E ho faticato il doppio di loro per conquistarmi la stima dei superiori.
È più facile la vita dietro al banco per un uomo di colore?
Senza dubbio. Gli italiani sono intimoriti dagli uomini più alti e grossi di loro e, di conseguenza, li rispettano.
Ma nel complesso ti sei sentita ben accolta dalla città di Torino?
Meno di quanto mi aspettassi, per questo mi sono trasferita da poco a Roma.
La tua ambizione?
Ho appena iniziato una nuova avventura all’Hotel de Ville di Roma, spero che sarà un’esperienza in linea con le mie aspettative. Il mio obiettivo è lavorare in un locale che metta davvero al centro il servizio e la cura per il cliente e ottenere gratificazione attraverso l’apprezzamento del mio lavoro.
ALY MBOW
Nato il 2 aprile 2000 a Dakar, in Senegal, è arrivato in Italia 4 anni fa. Promosso con la media dell’otto in quinta superiore all’istituto alberghiero di Alghero, lavora anche come cameriere nel ristorante bar Hopera nel centro della cittadina
Perché proprio la Sardegna?
Mamma, spinta dal desiderio di cercare nuove opportunità, aveva deciso di trasferirsi in Italia. Insieme, poi, abbiamo optato per la Sardegna perché amiamo il mare. Quanto ad Alghero, l’ha scelta lei che è partita prima di me: io l’ho raggiunta al termine delle medie, con tutti i documenti in regola.
Ti trovi bene ad Alghero?
Dal punto di vista umano, sì: la gente mi ha accolto con calore. Certo, ogni tanto mi capita di subire battute legate alle mie origini e al colore della mia pelle, ma non ci do peso e lascio cadere la provocazione. Detto questo, la mia vita è faticosa: mi sveglio presto per andare a scuola, appena finite le lezioni mi reco direttamente al lavoro e tornato a casa prima di coricarmi studio. In media dormo 3 ore per notte.
Essere musulmano ha ostacolato la tua integrazione?
Mai, perché ho sempre dimostrato rispetto per la religione cattolica e di conseguenza, sia sul lavoro che a scuola, la gente porta rispetto verso la mia religione. Di più, mi aiutano. Per esempio, nel periodo del Ramadan i titolari di Hopera mi sono venuti incontro con gli orari dei turni per permettermi di praticare la preghiera.
JAY ABIDJAN
Nato in Costa D’avorio nel 1993, a 6 anni si è trasferito a Varese. Da 5 è barman di ElitaBar di Milano
È stato complicato integrarti a Varese?
No, nonostante sia la città della Lega non ho percepito nei miei confronti un clima ostile. Al contrario. Fin da subito, a scuola, sono stato al centro dell’attenzione dei miei compagni, curiosi di conoscere la mia storia. E nel giro di poco mi sono creato una compagnia di figli della Varese bene che tutt’oggi sono miei amici.
E con l’italiano come te le sei cavato?
Ho imparato in fretta! Grazie alla maratona di cartoni animati che mi sono “sparato” durante l‘estate, il primo giorno di scuola già parlavo e capivo abbastanza bene la lingua.
Discriminazioni per il colore della tua pelle?
Mai serie. È normale: quando ero bambino qualche battuta me l’hanno fatta …! -Scoppia a ridere -Una volta superato il metro e 90 d’altezza però gli episodi del genere si contano sulle dita di una mano!
Insomma, gli uomini provano soggezione. E le donne?
Sono stato trattato qualche volta con una certa arroganza e superiorità da ragazze ricche conosciute in occasione di feste a casa di amici. Sul lavoro, invece, complici il mio ruolo e il mio approccio, non mi sono mai imbattuto in corteggiamenti sfacciati.
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A cura di Matteo Cioffi
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