pubblici esercizi
06 Luglio 2019Aly Mbow ha 19 anni, è in Italia da 4, lavora come cameriere in un ristorante di Alghero. Di giorno studia e ha la media dell’8, di sera lavora, dorme anche solo 3 ore per notte. Luis Hidalgo arriva dal Venezuela, dopo i primi successi come manager nella Repubblica Dominicana, ha aperto un cocktail restaurant a Vigevano e oggi è un barman affermato. Luca Hu, è nato a Shanghai ma dopo 35 anni a Milano si sente più italiano che cinese; è anche lui barman e gestisce 3 locali in città. Cecil invece arriva dal Ghana ed è sbarcato da un “barcone” a Lampedusa dopo un lungo viaggio. Ha fatto un tirocinio in una panetteria di Alba ed è riuscito ad ottenere un contratto fino al 2023.
[caption id="attachment_159213" align="alignright" width="150"] David Migliori[/caption]
Sono alcune delle storie di integrazione a cui abbiamo dedicato i primi articoli di questo numero. Nessuna intenzione di fare politica o di esprimere una posizione netta su un tema controverso come quello dell’immigrazione. Mixer si rivolge a tutti gli esercenti, ed è normale che tra i nostri lettori siano rappresentate tutte le posizioni politiche, da chi guiderebbe personalmente le navi militari per abbattere e affondare ogni zattera di clandestini diretta verso la nostra penisola, a chi sarebbe disposto ad ospitare a casa propria gli immigrati in fuga da povertà e guerra o alla ricerca di una vita migliore rispetto a quella che il destino ha riservato loro.
Ma, comunque la si pensi, i dati parlano di una presenza sempre più importante di lavoratori stranieri nel nostro settore. Secondo i dati di Fipe-Confcommercio, i dipendenti stranieri regolari a contratto nel settore dei pubblici esercizi sono già oltre un quarto del totale. Nel mondo della ristorazione si arriva a quasi il 30%. In numeri assoluti si tratta di 200mila persone, soprattutto cuochi e camerieri, ma anche baristi, pasticceri e gelatai. Sarebbe stupido non fare il possibile per conoscere meglio queste persone, chi sono, da dove arrivano, cosa pensano, cosa si aspettano da noi e soprattutto cosa possono offrirci. Le differenze possono essere – e spesso sono – un limite e un problema. E c’è chi ce lo ricorda a sufficienza ogni giorno. Personalmente, senza voler chiudere gli occhi di fronte ai pericoli e ai rischi per la nostra cultura, mi interessa di più capire cosa questa “invasione” possa portare di positivo nel nostro settore.
Nicole Cavazzuti ha indagato il mondo dei bar e ci racconta sei storie emblematiche di extracomunitari che arrivano da ogni parte del globo. Sono sudamericani, cinesi, africani e i loro percorsi sono sempre interessanti. Raccontano di persone in cerca di una vita migliore, di realizzazione personale e di rispetto per le nostre tradizioni. Sul tema dell’intolleranza gli interessati confermano che non manca chi fa battute su colore della pelle e religione (e questo è normale e salutare per noi italiani che anche sui luoghi comuni tra polentoni e terroni abbiamo sempre giocato), ma gli episodi di insulti o di trattamenti discriminatori sono pochi, “più manifestazioni di ignoranza che di vero razzismo”.
Le storie che ci racconta Anna Muzio arrivano dalla ristorazione. In questo campo non mancano progetti di integrazione che ruotano intorno al mondo della cucina e del cibo. Interessante scoprire come, in alcuni casi, gli immigrati abbiano imparato le basi del mestiere (dalla preparazione del pane e della pizza al corretto abbigliamento) nei loro luoghi di origine e abbiano poi utilizzato l’Italia come il Paese in cui perfezionarsi e specializzarsi. In attesa, perché no, di ritornare poi a casa con un bagaglio di esperienze e conoscenze tale da poter aprire delle attività in proprio.
Abbiamo dato spazio ad un paio di storie interessanti. Una è la vicenda di cui si è occupata anche la cronaca, quella della titolare rumena di un bar di Ostia che ha avuto il coraggio di affrontare e di denunciare le violenze del clan dei Casamonica. Le sue parole, “non ho fatto nulla di straordinario, denunciare le prepotenze dovrebbe essere la normalità, serve una mentalità diversa”, devono far riflettere sul fatto che tutti possiamo fare di più. La seconda è una bella storia di integrazione, che ci racconta Maddalena Baldini. Momo, il locale di proprietà di Marzia e del marito El Hadji, cerca di coniugare le tradizioni e le bontà del Senegal con quelle milanesi. Per questa coppia che ha deciso di intrecciare le proprie vite affettive la sfida è stata quella di intrecciare anche le tradizioni di appartenenza. Il simbolo migliore di questo connubio è l’invitante cocktail a base di Baobab. Lo potete ahimè solo vedere, ma non assaggiare.
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A cura di Matteo Cioffi
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