06 Novembre 2019
Bloomberg, uno dei colossi mass-economicomediatici del mondo occidentale, nel definire le tendenze del vino (che nel frattempo, per chi non lo sapesse, si è trasformato a tutti gli effetti in un bene-rifugio, tanto da rapire le attenzioni degli analisti e indurre la creazione di realtà come Cult Wines, società specializzata in investimenti sui vini di fascia alta) suggerisce 7 tendenze che determineranno l’andamento del mercato del vino nel 2019 e negli anni a venire. Tra le bizzarrie – fra cui il vino alla cannabis (che, secondo la rivista, avrà un vero boom di affari, vista la legalizzazione in gran parte del Nord America e dell’America Latina), l’affermazione del vino vegano (da noi in effetti già una realtà, sulla scia della diffusione del biologico) – la considerazione più importante, o almeno quella che io considero tale, è che anche nel 2019 il vino parlerà un linguaggio “vintage”. Ora, c’è da intendersi, perché il vino, come tradizione storica della nostra cultura e, in generale, dell’area indo-europea, in generale possiede i connotati delle ‘vecchie cose di buon gusto’ che si tramandano di padre in figlio, ma è altrettanto vero che, se si parla di un mercato globale che attualmente ‘cuba’ poco più di 70 miliardi di euro, qualcosa, dietro al marketing e all’economia di scala, si sarà sicuramente perso. È un peccato, ovviamente, anche se si tratta di uno degli effetti generalizzati – e meno gradevoli – della globalizzazione.
ALLA RI-SCOPERTA DEL PASSATO
In compenso, proprio perché il mondo del vino ha un’anima, cosa che lo rende sostanzialmente alieno a molti altri settori produttivi, proprio questa globalizzazione ha causato, come reazione, un movimento di riscoperta di coltivazioni tipiche di un mondo pre-boom economico, molto spesso abbandonate per semplici difficoltà produttive (rendimenti troppo bassi, attaccabilità dai parassiti, frutti delicati e inadatti a vendemmie industriali) o per inseguire determinate mode del momento. Caso emblematico è quello della Nascetta, vero territoriale della zona del Barolo, che ora, grazie ad un manipolo di 11 coraggiosi produttori, sta riprendendo il ruolo che le spettava, sacrificato alle necessità dell’ ‘oro nero’ delle Langhe, o ancora dell’Asprinio e tanti altri meravigliosi territoriali come il Ginestra e il Biancolella in Campania, o il Famoso in Romagna. Ma c’è un fenomeno più di altri che ha colpito la mia attenzione, un po’ perché nasce nella mia Regione, molto perché è incredibile l’energia con il quale tutto il territorio – amministrazioni pubbliche comprese – si è impegnato fattivamente nel processo di riscoperta. È il caso della Spergola.
LA COMPAGNIA DELLA SPERGOLA
Originario della Provincia di Reggio Emilia, soprattutto nella zona di Scandiano, Sassuolo e Casalgrande, spesso confuso con il Sauvignon, è un vitigno che, nelle sue diverse accezioni (Pomoria, Pellegrina, Spargola) è segnalato già nel 1600 come vino rinomato, coltivato in zona collinare, in terreni argillosi, ricchi di gesso, con buona resistenza alla siccità. La sua ricomparsa (attualmente quantificabile in circa 100 ettari vitati, ma in fase di aumento) nel comuni di Scandiano, Albinea, Quattro Castella e Bibbiano, ha portato, nel 2011, alla nascita della Compagnia della Spergola, che, riprendendo le tradizioni della storica Società Enologica Scandianese, si è incaricata di favorire lo sviluppo del vino ottenuto dal vitigno e del territorio su cui viene coltivato, ricordiamolo, troppo spesso identificato come “terra di Lambrusco”.
IL GRAPPOLO “ALATO”
Il motivo è presto detto, si tratta di un prodotto identitario di grande qualità, caratterizzato da un grappolo non particolarmente fitto (‘spergolo’, appunto), alato e con maturazione medio-precoce. Il vino che se ne produce è elegante e raffinato, sa di sfalcio di campo, kiwi e mela verde, possiede una sorprendente mineralità e una bella spalla acida, cosa che lo rende particolarmente adatto sia alla spumatizzazione (menziono, tra gli altri, l’eccellente “Particella 128” di Cinque Campi) che alla produzione di un vino da dessert perfetto con i dolci caratteristici della cucina locale. Un vitigno da riscoprire, insomma, che nei sogni migliori non resterà appannaggio di pochi ma verrà conosciuto ed apprezzato a livello mondiale, ennesima testimonianza, casomai ce ne fosse bisogno, dello sterminato patrimonio enologico della nostra penisola.
Romagnolo verace, Luca Gardini inizia giovanissimo la sua carriera, divenendo Sommelier Professionista nel 2003 a soli 22 anni, per poi essere incoronato, già l’anno successivo, miglior Sommelier d’Italia e – nel 2010 – Miglior Sommelier del mondo.
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A cura di Matteo Cioffi
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