17 Luglio 2014

Una parola rimbomba costantemente in questi anni di boom gastro-culinario “teleguidato” dai MasterChef & Affini di turno: “qualità”. Uno di quei vocaboli che, un po’ come felicità e fortuna, quando si sente ripetere troppo spesso non è un buon segno – di solito vuol dire che intorno ce n’è poca. E infatti, nel Paese simbolo dell’eccellenza enogastronomica, non tutti i consumatori scelgono la qualità ad ogni costo.Tanti, a malincuore, non se la possono permettere. Altri invece – e questo è grave – non ci badano proprio, vuoi per mancanza di educazione alimentare, per la semplicità di un menu “all you can eat” con gli amici o per la comodità delle promozioni al discount.
Da un lato abbiamo un forte calo dei consumi in Bar, Ristoranti e Pizzerie, dall’altro una crescente attenzione verso prodotti biologici, a km0, tipici e di alta gamma. Nei consumi stiamo sperimentando una polarizzazione che riflette la più ampia divaricazione tra chi ha i mezzi economici e culturali per apprezzare e acquistare prodotti di qualità e chi, viceversa, non li ha.
Come deve comportarsi un locale in uno scenario come questo? Qual è il giusto equilibrio tra le due Q, qualità e quantità, a parità di prezzo? Una strada sempre più battuta è quella del compromesso: ingredienti “poveri” della tradizione, valorizzati grazie a una cucina originale, creativa e di qualità; menu a prezzi popolari, impreziositi però dalla valorizzazione dei prodotti del territorio.
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Davide Oldani[/caption]
E’ il caso sia del boom degli “stellati low cost” – ben esemplificato dal “D’O” di Davide Oldani a Cornaredo o da “Un Posto a Milano” di Nicola Cavallaro – sia dei tantissimi piccoli grandi ristoratori di tutta Italia che, stando nei pochi euro di un aperitivo o di un pranzo di lavoro, fanno di tutto per non rinunciare alla qualità dell’offerta. Se non vogliamo che la parola qualità faccia rima soltanto con ricchezza, questa resta l’unica strada percorribile.
Il Vocabolario continua, non perdetevi la R!
Massimo Airoldi (@massimoairoldi)
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