28 Agosto 2014
Dal racconto di un cameriere di Manhattan: “da un cameriere ci si aspetta che sia allergologo, sommelier, censore dell’abuso di cellulari, fotografo, confessore, intrattenitore, barman, medico d’urgenza, buttafuori, centralinista, barzellettiere, terapeuta, poliglotta, valvola di sfogo, sensitivo, maestro di bon ton e chef dilettante”. Un cameriere è colui che deve soddisfare richieste talvolta “ai limiti dell’assurdo”, mantenendo un certo distacco e il sorriso sulle labbra. Un cameriere può essere la figura di riferimento per il cliente, che determina in una buona percentuale la decisione di andare in un locale piuttosto che in un altro. Mi siano consentiti due episodi personali: in un bar milanese dotato di una buona fama, vicino al quale abito e dove mi capita spesso di fermarmi per bere un caffè, in questi giorni uno dei camerieri è particolarmente nervoso e non ne fa mistero. Il risultato sono stoviglie sbattute sul bancone, parolacce borbottate a voce nemmeno troppo bassa e generica scortesia con gli avventori. Bene: mi è passata la voglia di quel caffè. Viceversa, in un ristorante dove non mi recavo da diversi anni, e nel quale sono recentemente tornata, ho avuto un’accoglienza talmente calda e affettuosa dal cameriere “di sempre” che ho giurato a me stessa di tornare molte altre volte senza più lasciar passare troppo tempo. Questo lungo preambolo serve ad introdurre una questione più spiccatamente tecnica: in quale modo un cameriere può essere giuridicamente - ed economicamente - coinvolto nella gestione, tanto da rivestire un ruolo più partecipe nella struttura dell’esercizio? Meglio ancora: è giuridicamente concepibile la figura del, per così dire, cameriere-venditore in senso tecnico?
A una prima valutazione strettamente giuridica, dovremmo affermare che il cameriere non può essere assimilato al venditore, da nessun punto di vista. Egli, infatti, non trasferisce la proprietà di alcun bene: la sua attività consiste nell’effettuare una prestazione d’opera (più precisamente, di servizi) nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato. Per rapporto di lavoro subordinato si intende, nello specifico, un’attività che si distingue da quella del lavoratore autonomo a motivo della soggezione del lavoratore al potere direttivo (ad esempio, organizzativo e disciplinare) del datore di lavoro, con conseguente limitazione dell’autonomia del lavoratore e suo inserimento nell’altrui organizzazione produttiva. Tale rapporto può essere sia a tempo indeterminato, sia a tempo determinato, quando ricorrono determinate circostanze, come per esempio la stagionalità, purché sempre nei limiti della legge. In ogni caso, tale configurazione non sembra compatibile con l’idea di un cameriere-venditore autonomo di prodotti. Sembra difficile inoltre pensare a un cameriere al quale venga offerto un contratto da professionista a partita IVA, perché non ne ricorrono i presupposti (normalmente la partita IVA viene riservata, appunto, ai professionisti lavoratori autonomi, ai quali, come si è già detto, non pare che si possa in alcun modo assimilare il cameriere). Un’altra possibilità che si potrebbe prendere in considerazione è quella di un contratto a progetto, ma anche questa veste giuridica appare un po’ tirata, pensando alle caratteristiche dell’attività del cameriere, che appare non troppo conciliabile con l’idea di progetto posta alla base di quel tipo di contratto. E allora? Premesso tutto ciò che si è detto, non si può negare che il modo in cui il cameriere svolge il proprio lavoro rappresenti - insieme a quello del cuoco, degli altri camerieri, del direttore di sala, eccetera - un elemento di sviluppo dell’avviamento del locale, che come tale merita certamente di essere valorizzato. Quali strumenti utilizzare a questo scopo? Una prima, notevole difficoltà consiste nello stabilire in quale misura l’attività del singolo soggetto incida sul successo del locale. Infatti, non è detto né accertabile che il cliente che torni lo faccia proprio grazie alla presenza di quel dato cameriere, e non, magari, per il livello della cucina o per un complesso di fattori attinenti al servizio in generale. Allo stesso modo, è assai improbabile pensare che un nuovo cliente sia indotto a frequentare un ristorante per la prima volta a motivo della presenza di un determinato cameriere (a meno che non sia un amico, ma si tratta evidentemente di casi-limite). Non è tutto: anche ammesso che il dato dell’apporto individuale possa essere in qualche modo acquisito, resterebbe da quantificare tale apporto in termini economici. Di fronte a tutte queste obiezioni, occorre trovare una via percorribile per predisporre un adeguato sistema di incentivazione. Prima di tutto, al nostro cameriere-modello potrà essere offerto uno stipendio adeguato, che gli conferisca la necessaria soddisfazione professionale e lo metta anche al riparo da più allettanti offerte della concorrenza. Un altro sistema, semplice ma efficace, potrebbe essere quello di prevedere un incentivo in percentuale sui ricavi, eventualmente stabilendo un tetto di questi ultimi al raggiungimento del quale scatta il suddetto incentivo e, per altro verso, limitando l’incentivo ad una somma massima da indicarsi in valore assoluto, in modo che siano tutelate entrambe le parti dell’“affare”. Ancora, si potrebbe legare l’incentivo al risultato dell’attività, prevedendo una percentuale correlata al margine operativo secondo i criteri sopra esposti. In tal caso, sarà necessario definire a priori le voci da considerare per delineare il margine operativo medesimo e le modalità di verifica per il cameriere. Un altro sistema efficace potrebbe essere quello di attribuire al cameriere una piccola partecipazione nella società, da mantenersi per il tempo in cui lavora presso di essa, ed attraverso la quale egli possa partecipare agli utili. Attenzione, però, perché le società nel nostro ordinamento si dividono in società di persone e società di capitali, e soltanto la struttura di queste seconde è idonea allo scopo. La figura più adatta sembra essere quella della società a responsabilità limitata, nella quale si riscontra la flessibilità necessaria. In questa ipotesi va tenuto presente che il cameriere potrebbe lasciare la società per andare da altri o per svolgere nuove attività: poiché non si può escludere l’eventualità di liti o contrasti, sarebbe opportuno riservare alla società la facoltà di riacquistare - l’ideale sarebbe in qualsiasi momento - la quota data al cameriere ad un prezzo pari al valore nominale (ad esempio, capitale sociale diviso 100 moltiplicato per la percentuale corrispondente alla quota). D’altro canto, nulla impedisce di legare a sé il cameriere con partecipazioni, seppure di minoranza, anche elevate. È sempre consigliabile farsi assistere, nella definizione degli accordi, che potrebbero anche consistere in un mix delle soluzioni prospettate, da un professionista. Insomma, se è vero che da un punto di vista squisitamente tecnico cameriere e venditore sono due figure diverse, è anche vero, come si è visto, che il diritto concede qualche possibilità di calibrare un rapporto giuridico che fotografi quello personale e che riconosca in modo più pieno la professionalità del cameriere. Ad ogni modo, per dirla ancora con il nostro cameriere di Manhattan, la parte migliore del lavoro sono i “brandelli di umanità”, che occorre saper gestire con la giusta discrezione, partecipazione e pazienza.
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A cura di Matteo Cioffi
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