17 Settembre 2015
Se lo si traduce dalla lingua d’origine, quella inglese, il significato è “chiamare”, o “nominare”; due termini, in italiano, monchi, zoppi, che non rendono appieno il concetto, importantissimo, proprio invece della terminologia anglosassone. È il naming, ovvero l’arte (perché di questo si tratta) di assegnare un nome a un’azienda, un prodotto o a un locale. Una scelta strategica di fondamentale importanza, in grado di determinare successo o insuccesso, se non pensata in maniera saggia e consapevole. Finiti i tempi, per quel che riguarda ristoranti e, più in generale, esercizi commerciali, di “Mamma Rosa”, “Al Solito Posto” e affini (per quanto ancora possa molto la decisione di chiamare il proprio locale con civico e nome della via, formidabile modo per far sì che i clienti si imprimano bene nome e indirizzo). Da diverso tempo il marketing si è, a ragione, impossessato del naming. Una vera e propria scelta strategica dunque, che affonda le sue radici e origini nella scelta del nome appropriato per aziende e prodotti, adattandosi ed evolvendosi (ma non più di tanto) nel tempo in funzione degli esercizi commerciali, che comunque soffrono, in molti casi, di decisioni effimere dovute a mode del momento, destinate quindi a evaporare e ad avere vita breve; non è purtroppo un caso, infatti, che parecchi locali destinati a chiudere in breve tempo abbiano nomi in realtà di basso impatto.
Il naming e le buone regole
Una veloce escursione nel naming proprio dei prodotti: perché, ad esempio, un vermouth si chiama Oscar 697? «Oscar è il nome di battesimo – spiega Stefano Di Dio, proprietario della distilleria – del nostro esperto di miscele (un omaggio alla sua figura, quindi), e 697 rappresenta il numero di brevetto. In più Oscar è parola nota in tutte le lingue del mondo e dalla forte connotazione positiva». Di facile ricordo, quindi, e qui entrano in gioco alcune ma quasi obbligatorie regole di marketing, quasi dei comandamenti (non a caso sono 10) validi sia per prodotti e aziende, sia per locali: «Cercare di capire e conoscere: senza conoscenza è impossibile dare un nome corretto e coerente. Il Giornalistico Associato INK, che si occupa da molto tempo di naming, a dettare le regole – deve essere chiaro e memorizzabile. Cosa offre la concorrenza? Un veloce giro sui motori di ricerca aiuta a non fare doppioni controproducenti. Dominio libero: inutile pensare a un nome se poi il sito si chiamerà in tutt’altro modo. Pensa, ripensa e cambia: partire da un’idea e svilupparla, con giochi di parole e associazioni di idee”». Arrivati a un possibile nome, è necessario verificarne efficacia e coerenza: “trovato il vocabolo – prosegue il management di INK – bisogna testarlo, attraverso il riscontro di amici e conoscenti; il feedback conseguente sarà sincero e obiettivo. Il nome non si cambia mai; ecco perché è importante pensarlo bene. Attenzione poi agli acronimi: possono essere golosi e piacevoli, ma il mondo ne è pieno. Attenzione anche alle parole straniere, ne va sempre controllato il significato per i clienti esteri…» In ultimo, aggiungono ai loro comandamenti, un pensiero visual: a ogni nome deve associarsi, in maniera coerente, un logo o scritta che sia. Ecco perché le parole (o le frasi) corte funzionano meglio.
Fantasia e buonsenso
Questi dieci essenziali e necessari comandamenti, pensati in origine per prodotti e marchi, valgono senza significative differenze anche per tutti i locali ed esercizi commerciali, che però si possono permettere qualche escursione in nome di creatività, estro e fantasia. E di tutto questo ne approfitta un ristorante bresciano dal nome decisamente pittoresco Oh! Fico ma Eco. Naming lungo, coraggioso e singolare, spiegato efficacemente dal proprietario Alberto Rangozzi: «Oh è ovviamente un’esclamazione di stupore (ma attenzione, se si guarda bene l’insegna si intravede anche la formula dell’acqua scritta al contrario), Fico non ha bisogno di particolari spiegazioni, mentre Eco rappresenta il concetto della ecosostenibilità, visto che gli interi arredi del mio locale sono realizzati con materiali di recupero ». Scelta coraggiosa e controcorrente, che sintetizza nel nome (lunghetto…) del ristorante tutti i suoi must. Di certo è un naming efficace, con una redemption di forte impatto. Diverso il percorso, sotto il segno della semplicità e dell’immediatezza, di Marco Era, proprietario di Sorsi & Morsi: «Nel mio locale si beve e si mangia, trattandosi di enoteca e wine bar. Quale nome migliore di questo? Immediata riconoscibilità, indelebile ricordo e una certa armonia fonetica nel pronunciarlo». Soluzioni differenti, quelle più sopra citate, ma accomunate da pensieri e scelte strategicamente efficaci, e l’elenco di naming che funzionano potrebbe certo non fermarsi qui (si pensi ad esempio al Ristorante dei Buoni e Cattivi, che deve il proprio nome al fatto che chi vi lavora proviene da un percorso di vita difficile e che quindi cerca una nuova vita, la cosiddetta seconda possibilità). Ma forse l’arte del naming, quantomai attuale, ha radici antiche: nell’antica Roma si diceva nomina sunt consequentia rerum che tradotto suona “i nomi sono la conseguenza delle cose”. E, più celebre ancora, nomen omen, “il nome è il destino”.
Qualche esempio: tutto il naming del mondo
Tanti nomi, alcuni efficaci, altri meno; spiritosi, curiosi, spartani, di dubbio gusto… Ognuno ha il suo, tra rimandi a citazioni famose, giochi di parole ed espressioni proprie dei dialetti locali. Eccone alcuni, pescati nel grande mare della fantasia di chi si occupa, a vario titolo, di ristorazione: tra ristoranti, trattorie e osterie spiccano L’uva e Un Quarto, L’ultima Cena, Al Posto Affianco (per fare concorrenza al gettonatissimo Al Solito Posto), Non Esco di Rado, Come Diavolo Si Chiama? (idea semplice e azzeccata…), Pensavo Peggio, L’Angolo di Vino, Obeso, Miseria e Nobiltà, Osteria della Madonna, La Forchetta Curiosa… I bar non sono da meno, con nomi che vanno da Mai a Letto a Bar Banera, da Bar Colla a 7.000 Caffè. Per finire un paio di citazioni sotto il segno della pizza: Porgi L’altra Guancia e il quasi scontato C’è Pizza per Te. Chissà se l’abito fa il monaco…
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