14 Gennaio 2016

Alberghi, bar e ristoranti fanno da argine al rischio di desertificazione dei centri storici. A rivelarlo è l’indagine “Demografia d'impresa nei centri storici italiani”, condotta dall'ufficio studi di Confcommercio insieme a Unioncamere-SiCamera su 39 centri storici di numerosi capoluoghi di medie dimensioni, dove risiedono 6,9 milioni di abitanti che corrispondono all’11,3% della popolazione italiana (volutamente escluse le grandi città, dove il fenomeno non è così evidente per la presenza di esercizi commerciali in più zone centrali).
La ricerca sottolinea come negli ultimi sette anni i centri storici abbiano perso il 16,7% dei negozi, a fronte di un calo del 15% registrato nelle medie città e del 5,9% del resto d'Italia. Per contro, proprio nei centri storici sono cresciuti del 9,8% alberghi, bar e ristoranti, a conferma della “vocazione turistico-ricettiva” fatta propria dai quartieri più centrali. Un fenomeno che fa segnare un picco a Salerno dove si è registrato un balzo del 61,8%. Nel settore si osserva del resto un “effetto Sud”: «Il Mezzogiorno - ha detto il direttore del centro studi dell'associazione, Mariano Bella - esprime i suoi elementi di più genuina vitalità attraverso il ripopolamento dei centri storici con alberghi, bar e ristoranti».
«Il rischio di desertificazione commerciale dei centri storici è vero e concreto e deve essere assolutamente scongiurato - ha spiegato il presidente di Confcommercio Carlo Sangalli ad Affari Italiani -. Il primo passo è migliorare la progettazione urbanistica delle città e nello stesso tempo agire sulla leva tributaria, introducendo una cedolare secca sulle locazioni commerciali in modo da ridurre gli affitti, un passo indispensabile per arginare l’elevata mortalità dei negozi a sede fissa registrata nei centri storici dei comuni italiani».
L’analisi di Fipe
I risultati della ricerca - avverte Fipe, Federazione Italiana Pubblici Esercizi - vanno tuttavia interpretati, per quanto riguarda il settore dei ristoranti e dei bar, alla luce di tre fattori. Il primo: la crescita della pressione concorrenziale che caratterizza il comparto con una densità imprenditoriale tra le più alte d’Europa. In Italia ci sono 4,4 imprese ogni 1.000 abitanti contro le 3,3 della Francia e le 1,8 del Regno Unito; i consumi sono però scesi, tra il 2007 ed il 2014, di 1,2 miliardi di euro. Il secondo: la crescita dell’imprenditoria straniera, a conferma del mutato equilibrio tra costi ed opportunità che segna la gestione delle imprese. Oggi si contano in Italia 44 mila imprenditori esteri che gestiscono il 15% dei bar ed il 14% dei ristoranti complessivi. Il terzo: la crescita di formule commerciali a minor contenuto di servizio a scapito di quelle più qualificate. Il numero dei take away è salito del 35% tra il 2009 ed il 2014, ed uno su tre risulta gestito da imprenditori stranieri.
La conseguenza - conclude Fipe - è che l’aumento della rete non può essere in alcun modo assimilato al buono stato di salute delle imprese, mentre appare più plausibile interpretarlo come una condizione di ulteriore criticità peraltro suffragata anche dagli elevati tassi di turn over imprenditoriale che caratterizzano questo settore. Nei soli primi 9 mesi del 2015, rileva la Federazione, hanno cessato l’attività ben 20 mila pubblici esercizi.
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