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16 Giugno 2023Il valore dell’export agroalimentare italiano potrebbe raddoppiare da quasi 59 a 119 miliardi di euro se il mercato del cosiddetto «Italian sounding», rappresentato dalle imitazioni del made in Italy, fosse soppresso. A evidenziarlo è il rapporto “Italian sounding: quanto vale e come trasformarlo in export made in Italy” realizzato da The European House – Ambrosetti e ISMEA.
Nel 2022 il fenomeno complessivo dell’Italian sounding (l’utilizzo di denominazioni, riferimenti geografici, immagini, combinazioni cromatiche e marchi che evocano l’Italia su etichette e confezioni di prodotti agroalimentari non italiani) nel mondo è stato pari a 91 miliardi di euro, di cui 60 riguardano direttamente i consumatori stranieri che realmente desiderano acquistare prodotti made in Italy e sono ingannati da queste azioni di marketing.
“L’obiettivo del rapporto è dare una direzione per un percorso di investimenti tra pubblico e privato che permetta alle nostre imprese di soddisfare la voglia di made in Italy nel mondo e riconquistare quei 60 miliardi di euro spesi oggi dai consumatori esteri che credono di acquistare prodotti italiani quando invece sono soltanto imitazioni con nomi originali o simili alle nostre eccellenze agroalimentari. Il fenomeno dell’Italian sounding deve essere interpretato perciò come obiettivo di portare fatturato aggiuntivo della filiera agroalimentare italiana, con il potenziale di far raddoppiare il nostro export”, dichiara Benedetta Brioschi, Associate Partner e Responsabile Food&Retail, The European House – Ambrosetti.
L’ultimo anno si è chiuso con un incremento del 15,3% di esportazione di prodotti agroalimentari dal nostro Paese, la crescita più ampia registrata a partire dal 2000. L’Italia è oggi primo esportatore nel mondo di polpe e pelati di pomodoro (76,7% sul totale dell’export mondiale), di pasta (48,4%), di castagne sgusciate (32,6%), di passate e concentrati di pomodoro (24,2% del mercato) e al secondo posto per vino, formaggi freschi, kiwi, liquori, mele e nocciole. Nessun primato, invece, in termini di valore cumulato del nostro export agroalimentare: i 58,8 miliardi di euro registrati nel 2022 permettono all’Italia di raggiungere solo il quinto posto in Europa: l’export tedesco vale quasi 25 miliardi in più e quello francese 20 in più. L’agroalimentare, inoltre, vale il 9,4% delle esportazioni totali italiane a fronte di un 13,5% della Francia e 17% in Spagna.
“Un fattore che limita la presenza internazionale dei prodotti alimentari italiani è la frammentazione del settore, composto per l’85,4% da piccole imprese che contribuiscono soltanto al 14,6% dei ricavi del settore. Sulla competitività delle esportazioni made in Italy autentiche agisce però con forza anche il fenomeno dell’Italian sounding che deve essere contrastato con decisione”, ha aggiunto Brioschi.
Lo studio ha ipotizzato tre scenari per riconquistare gli spazi occupati dalle imitazione dei prodotti tipici italiani. Raddoppiando il tasso di crescita degli investimenti nel settore rispetto a quello attuale ci vorrebbero 27 anni per convertire l’Italian sounding in nuovo fatturato, e quindi export, delle imprese italiane. Raddoppiare, invece, il tasso crescita degli investimenti, ma anche la loro produttività puntando su innovazione e digitalizzazione dimezzerebbe quasi i tempi, fino a 15 anni. Nel terzo e migliore scenario al raddoppio del tasso di crescita di investimenti e produttività si aggiunge l’impulso dei fondi del PNRR consentendo di arrivare entro 11 anni all’obiettivo prefissato di «trasformare» i 60 miliardi di vendite sotto le insegne dell’Italian sounding in export agroalimentare effettivo per il nostro Paese.
“È necessario attrarre investimenti produttivi nel settore agroalimentare italiano per incrementare la capacità di assorbimento dell’Italian sounding, aumentare la consapevolezza dei consumatori stranieri sulla qualità del made in Italy e comunicarlo con efficacia. Le aziende del settore food&beverage devono avere la possibilità di rafforzare la competitività internazionale, magari sostenute da ambasciatori del made in Italy. Non ultima l’adozione di soluzioni che consentano la tracciabilità dei prodotti e avviare un processo di internazionalizzazione della filiera della distribuzione Italiana”, ha concluso Benedetta Brioschi.
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A cura di Matteo Cioffi
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