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12 Agosto 2014Un tasso di crescita del 15% su scala internazionale, che nel solo segmento Food and Beverage genera un fatturato globale di circa 600 miliardi di euro. Dietro queste cifre c’è una parola, “halal”, che in arabo significa “lecito”, e che in Occidente si riferisce principalmente al cibo preparato in modo accettabile per la legge islamica.
Tutti sappiamo che i musulmani non mangiano determinati alimenti o alimenti preparati in determinati modi. Non tutti invece sanno che esistono degli enti di certificazione che rilasciano alle aziende agroalimentari (e non solo a quelle) un attestato che comprova il rispetto delle regole islamiche di liceità, e che questo riconoscimento può tramutarsi in un lasciapassare verso nuovi mercati, sia in Italia sia all’estero.
«Le potenzialità in termini di volumi secondo noi sono enormi, ma ancora inespresse» - sostiene Alessandro Valerio, responsabile Ricerca e Sviluppo del Salumificio Rigamonti.
Regole e certificazione
Quali sono le principali regole islamiche di liceità in ambito alimentare? «L’attenzione è focalizzata tanto sulla composizione del prodotto, quanto su tracciabilità e segregazione del processo produttivo» - spiega Hamid ’Abd al-Qadir Distefano, Amministratore delegato dell’organismo di certificazione Halal Italia. «Quindi ingredienti di origine animale o potenzialmente tali e ingredienti che prevedono l’impiego di etanolo costituiscono gli elementi principali da valutare o escludere dalla produzione certificata halal.
Ciò discende dai precetti che si trovano nel Corano, che considera non consentiti qualsiasi derivato dal maiale, qualsiasi derivato da animali non macellati ritualmente (come nell’ebraismo), gli animali dei quali non si conosca la causa della morte, il sangue e le bevande inebrianti».
Il percorso di certificazione è abbastanza articolato. «Si tratta prima di tutto di valutare la fattibilità del progetto attraverso una pre-ispezione - racconta Distefano - quindi di formare il personale sui requisiti e le possibilità relative a tale certificazione. Successivamente si lavora sull’analisi documentale del prodotto, materiali di confezionamento compresi, per prepararsi efficacemente all’audit di certificazione.
Se l’esito è positivo o se eventuali non conformità sono state risolte viene emesso il certificato.
Periodicamente poi l’azienda si sottopone a visite di controllo o mantenimento».
«Ottenere l’accreditamento non è una passeggiata», sostiene Denis Cecchetti, Amministratore unico di Canuti Tradizione Italiana, l’azienda di pasta fresca all’uovo trafilata al bronzo e surgelata destinata al canale Horeca. «È un processo che coinvolge molte fasi e molti ruoli aziendali. Bisogna intervenire sull’acquisto delle materie prime (abbiamo cambiato i fornitori), alla preparazione delle macchine, fino alla pianificazione delle lavorazioni per evitare contaminazioni con ingredienti proibiti».
[caption id="attachment_29556" align="alignleft" width="185"] Alessandro Valeri[/caption]
«Inoltre è molto importante tenere presente il profondo significato etico e religioso di questo tipo di processo e l’importanza di far nascere negli operatori un nuovo tipo di attenzione e sensibilità nei confronti di questa particolare produzione» precisa Alessandro Valerio di Rigamonti.
La certificazione halal si rivolge soprattutto alle aziende dei comparti food, cosmesi e farmaceutica oltre che ai servizi di hospitality. «Oltre all’ambito dei prodotti a base carne, rileviamo una significativa crescita di richieste dal settore lattiero-caseario, paste ripiene e ingredienti per l’industria agroalimentare» spiega Distefano. Ultimamente ha completato il percorso di certificazione anche un’azienda di acque minerali, la Ferrarelle.
A prima vista è difficile capire come un’acqua minerale possa non essere halal, e quindi perché dovrebbe sentire il bisogno di certificarsi, ma l’esigenza ha invece una sua ragion d’essere, come spiega Giuseppe Dadà, Direttore Qualità di Ferrarelle. «Il prodotto acqua in sé è puro, e naturalmente halal. La questione piuttosto riguarda in primo luogo il processo di produzione, in cui bisogna verificare che i grassi di lubrificazione degli impianti non entrino in contatto con l’acqua o, nel caso che ciò avvenga, che non contengano grassi di origine animale, e in secondo luogo il packaging, perché anche la plastica, soprattutto quella dei tappi, può contenere sostanze di origine animale. Si tratta quindi di ottenere dal produttore e dai suoi fornitori di materia prima la garanzia dell’assenza di sostanze di origine animale».
Gli organismi di certificazione
Nell’ambito agroalimentare le aziende certificate presso Halal Italia sono tanto le piccole imprese produttrici di eccellenze made in Italy, quanto i gruppi industriali più rilevanti e sono ormai quasi un centinaio. Peraltro la situazione in Italia è un po’confusa, perché Halal Italia non è l’unico ente di certificazione presente nel Paese.
Esiste ad esempio anche Halal Italy Authority, che rappresenta l’Autorità Internazionale di Certificazione Islamica.
«Noi abbiamo scelto Halal Italia principalmente sulla base dei paesi in cui era accreditato (per alcuni paesi ci sono più enti accreditati, per altri solo uno)» spiega Denis Cecchetti. «Abbiamo scelto Halal Italia per la sua collaborazione con il Comitato Etico per la Certificazione Halal della CO.RE.IS. (Comunità Religiosa Islamica) Italiana e inoltre perché è stata riconosciuta ufficialmente in un accordo tra i Ministri italiani degli Affari Esteri, dello Sviluppo Economico, delle Politiche Agricole e della Salute alla presenza degli ambasciatori dei Paesi dell’OCI (Organizzazione della Conferenza Islamica)» aggiunge Alessandro Valerio.
Italia, Europa, mondo
«Abbiamo avviato il percorso di certificazione allo scopo di penetrare in nuovi mercati, come l’Estremo Oriente e il Medio Oriente (Paesi del Golfo) ma anche di crescere nei mercati in cui siamo già presenti, come quelli europei a forte presenza musulmana.
In Italia l’esigenza è meno sentita, ma è importante anticipare i bisogni» spiega Denis Cecchetti di Canuti.
[caption id="attachment_29557" align="alignright" width="192"] Denis Cecchetti[/caption]
In effetti oggi i prodotti con certificazione halal vengono immessi principalmente su mercati esteri.«Le ragioni per cui lo strumento della certificazione viene colto soprattutto in chiave export sono principalmente di ordine quantitativo» spiega Hamid ’Abd al-Qadir Distefano.
«Si tratta di soddisfare una domanda, anche di prodotti di qualità come sono quelli italiani, di circa due miliardi di persone nel mondo, spesso su mercati più maturi e strutturati relativamente alla necessità per i consumatori di fede islamica di trovare prodotti con garanzia di conformità rispetto ai principi religiosi: l’area del Golfo ma anche diversi Paesi UE (dove risiedono 50 milioni di persone di fede islamica) come Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna e Paesi Bassi sono un esempio.
In Italia le cose stanno cambiando relativamente alla quantità e qualità dell’offerta di prodotti halal: è una comunità che conta ormai 1,7 milioni di fedeli».
La distribuzione
La penetrazione dei prodotti certificati halal nella grande distribuzione italiana è una delle frontiere più interessanti. Infatti la quantità e la composizione sociale-anagrafica dei musulmani in Italia, unita al fatto che il cibo halal non è materia di esclusivo interesse dei musulmani, fa sì che il confinamento della tematica halal nei soli negozi per clientele specifiche stia segnando il passo. Ecco a questo proposito alcune riflessioni di Hamid ’Abd al-Qadir Distefano: «C’è un mercato interno da valorizzare nella prospettiva delle esigenze di una comunità come quella islamica che è in Italia è la seconda, quanto a consistenza numerica e la prima per crescita demografica. Non è pensabile che una comunità così rilevante possa essere costretta a fare la spesa solo nei negozi ‘etnici’ o nelle cosiddette ‘macellerie islamiche’.
Ci sono musulmani italiani e seconde, terze e quarte generazioni di musulmani di origine immigratoria che non cercano solo il cous cous, ma soprattutto prodotti della tradizioni gastronomica italiana che soddisfino anche le regole religiose. Inoltre i prodotti certificati garantiscono qualità in termini di sicurezza alimentare, selezione delle materie prime, ottimizzazione e maggior controllo dei processi produttivi: tale qualità è apprezzata anche da coloro che non sono musulmani. In altri Paesi europei infatti i prodotti halal sono acquistati per oltre un terzo da consumatori che non sono mossi dall’appartenenza confessionale ma che percepiscono il prodotto certificato halal come un prodotto di qualità superiore. Questo è senz’altro uno spunto di riflessione interessante per gli operatori della GDO».
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