03 Gennaio 2021
Sarà perché in questo periodo siamo tutti più sensibili, sarà la voglia di ricominciare, sarà anche per lasciarsi alle spalle questa situazione assurda e inaspettata che ci ha travolti a fine febbraio, ma siamo tutti alla ricerca di storie imprenditoriali belle da raccontare che facciano da stimolo a tutto il settore. E di storie, per fortuna, ce ne sono. A noi è piaciuta quella che ci ha raccontato Marco Cavallo, un nome ‘importante’ che ricorda un’altra battaglia, quella che tutti ricordiamo come Legge Basaglia, quella legge del 1978 che segna la fine dei trattamenti sanitari obbligatori (più conosciuti come manicomi). Marco Cavallo è una scultura di legno e cartapesta che simboleggia l’uscita di un uomo dal manicomio e l’inizio di una nuova vita. Proprio come quella che ci ha raccontato questo omonimo imprenditore.
Partiamo dall’inizio. Come e quando è cominciata la tua avventura nel mondo del la ristorazione?
In realtà non ricordo un momento preciso, forse perché provengo da una famiglia di ristoratori. Quindi per me è stato abbastanza naturale decidere di intraprendere questo percorso professionale. Ho iniziato a lavorare con mio padre molto giovane e, anche quando poi ho deciso di proseguire la mia strada da solo, nonostante le difficoltà, non ho mai pensato di fare altro.
Ti sei poi lanciato in una nuova sfida nel settore street food. Come nasce l’idea?
Conclusa la mia precedente esperienza professionale nella gestione della ristorazione per una società di calcio professionistico, durata più di 10 anni, ho sentito il bisogno di un cambiamento radicale. Lanciarmi nello street food è stata tanto una necessità quanto una sfida. La necessità di ricominciare subito a fare il mio lavoro a stretto contatto con le persone e la convinzione che anche in una città come Milano fosse possibile “nobilitare” il concetto di street food.
Da qui, l’idea del food truck in zona Bosco Verticale. Come si chiama e in cosa consiste l’attività nello specifico?
La nostra attività di food truck si chiama StreetGourmand. Mi piace definirlo un bistrot itinerante con una proposta di burger e sandwich gourmet.
Che tipo di clientela avete sviluppato e quali sono le maggiori richieste?
Devo dire che la nostra clientela è molto diversificata. I nostri clienti sono direttori di banca, residenti della zona, manager, impiegati ma anche studenti e operai dei vari cantieri della zona. E poi molti turisti stranieri. Il nostro menu rispecchia proprio queste diverse personalità. Andiamo dal classico burger americano per i più giovani, passando per i nostri burger vegani molto apprezzati dal pubblico femminile e straniero, fino al nostro panino con carne di cavallo marinata e pecorino sardo alla piastra per palati esigenti.
Avendo scelto una zona così esclusiva, avrete anche puntato molto sulla qualità delle materie prime…
La scelta della zona faceva parte della sfida di cui parlavo prima. Nonostante quello che si possa pensare, non è stato facile inserirsi in un contesto così esclusivo. Milano poi è una città che offre veramente di tutto. E dove la concorrenza è altissima. Sarebbe stato forse più facile iniziare in una zona più periferica. Ma proprio grazie alla scelta di puntare tutto sulla qualità dei nostri prodotti, alla fine siamo riusciti a guadagnarci la fiducia dei nostri clienti.
Come avete selezionato i fornitori?
Tendenzialmente cerchiamo di produrre noi la maggior parte degli ingredienti. Dove non è possibile, abbiamo deciso di affiancarci solo a realtà che rappresentano un’eccellenza nel loro settore di riferimento. Non a caso le nostre carni sono prodotte dalla macelleria Oberto, verdure e pesce le acquistiamo da fornitori selezionati, il pane è prodotto da una panetteria che lavora ancora con metodo artigianale. Per le birre e le bibite ci forniamo da Heineken Italia e molti altri alimenti di qualità ci vengono forniti da Agenzia Lombarda. E passiamo alla più stretta attualità. Qualche mese fa, prima dell’arrivo della pandemia, decidi di creare una ghost kitchen. Raccontaci cosa c’è dietro questa scelta e come hai sviluppato l’idea. Tutto è nato inizialmente dall’esigenza di avere un laboratorio dove creare le preparazioni per i nostri panini. In contemporanea, lavoriamo spesso per eventi pubblici e privati, quindi avere una cucina professionale è fondamentale. Per un certo periodo ha collaborato con noi una chef vegana dalla formazione internazionale, sempre in giro per il mondo. È stata lei che un giorno parlando mi ha raccontato di come all’estero fossero nate numerose ghost kitchen. Il lockdown è stato, paradossalmente, il momento perfetto per decidere di buttarmi in questa nuova impresa. Cioè quando un po’ tutti abbiamo iniziato a capire che quelle che fino a quel momento erano state le nostre abitudini, come banalmente andare al ristorante, sarebbero cambiate. Da lì è nato il nostro StreetGourmand Lab.
Ad aprile, in pieno lockdown, la scelta di far partire le consegne a domicilio. Come vi siete mossi all’inizio?
È stato naturale come prima cosa decidere di contattare alcune delle diverse società di food delivery che operano nella nostra città, anche se, avendo la sede operativa del laboratorio a Pero, nella zona di Rho Fiera, l’unico che spingeva i propri rider fino a noi era Uber Eats.
Siete poi passati a impiegare dei vostri ‘rider’ per le consegne. Come mai questa scelta? E cosa è cambiato?
Essendo impossibilitati - a causa del lockdown - a operare su Milano con il nostro food truck e avendo un unico partner di delivery, è stata una scelta obbligata quella di iniziare a effettuare le consegne con i nostri rider. Inizialmente, essendo il mercato del lavoro fermo, ho chiamato una serie di amici e conoscenti che a causa della pandemia erano rimasti senza lavoro, e anche grazie a loro siamo partiti.
Che tipologia di prodotti vi richiedono maggiormente e qual è il vostro cavallo di battaglia?
Devo dire che tutto il nostro menu riscuote un discreto successo. Ma senza dubbio il nostro My Caramel - che non a caso è anche il nome della nostra srl neocostituita - è in assoluto il più richiesto.
Raccontaci una giornata lavorativa tipo nella vostra ghost kitchen. Come si organizza il lavoro del delivery?
La giornata inizia prestissimo, già alle 7 del mattino. Io sono operativo su tutto ciò che concerne il rapporto con i fornitori, l’approvvigionamento merce e la gestione della parte burocratica. I miei ragazzi arrivano in cucina verso le 10.30 quando si inizia con la preparazione della linea, e verso le 12 cominciamo a evadere i primi ordini. Dalle 15 fino alle 17.30 ci occupiamo delle pulizie - intensificate secondo le attuali norme di sanificazione post Covid - alle 18 ripartiamo con la preparazione della linea serale, e alle 19 siamo pronti con i nuovi ordini, così fino alle 22.30. E poi ancora pulizie e organizzazione del lavoro per il giorno seguente. E a mezzanotte e mezza, salvo imprevisti, finalmente si torna a casa.
Quali sono, secondo te, i vostri punti di forza e quali quelli da migliorare?
Dal riscontro diretto con i nostri clienti più affezionati, ma anche grazie alle recensioni che riceviamo sui vari siti di delivery, è chiaro che le persone apprezzano soprattutto il nostro rapporto qualità prezzo. Cioè la capacità di consegnare un buon prodotto a un prezzo concorrenziale. Quello che dobbiamo certamente migliorare è la velocità di evasione degli ordini. Attualmente viaggiamo sui circa 20 minuti di tempo dall’ordine alla consegna. Possiamo e dobbiamo fare molto meglio.
Qual è stata la risposta della clientela?
Come tutte le start up, abbiamo avuto anche noi una prima fase di “rodaggio”. In Italia, lo street food - e più in generale il food delivery - non ha ancora raggiunto i livelli di molti paesi esteri. La pandemia ha certamente dato una spinta nuova in questo senso. L’obbligo di rimanere a casa ha portato molte persone a scoprire il servizio di consegna a domicilio e di apprezzarne l’utilità. Anche noi siamo quindi riusciti a farci conoscere e, soprattutto, a farci apprezzare.
Pensate di implementare il business?
Certamente. L’idea è quella di continuare a crescere sia in termini di offerta di qualità del prodotto che capacità di servizio.
Qual è il tuo sogno nel cassetto?
Il mio sogno è quello di riuscire a continuare a fare il mio lavoro, ma sempre meglio. Quello che mi ha insegnato questa pandemia è che bisogna apprezzare quello che si possiede, cercando di migliorarsi e riuscendo a cogliere tutte le opportunità che ci vengono offerte. Anche quando tutto sembra perduto, bisogna sempre trovare la forza di rialzarsi puntando su passione e intraprendenza. Qualità che per fortuna a noi italiani non mancano!
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A cura di Matteo Cioffi
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