pubblici esercizi
27 Maggio 2021La diffusione dello smart working, incentivata dalla pandemia e dal concomitante lockdown, ha influito negativamente su consumi e frequentazione di bar e ristoranti. Lo scenario tratteggiato da Fipe.
Un anno nero il 2020. Con un bilancio a tinte fosche, come mostrano chiaramente le rilevazioni del Centro Studi Fipe-Confcommercio: 514 mila unità di lavoro (alloggio-ristorazione) e 243 mila posti di lavoro (non a tempo determinato, si badi bene) in meno. E ancora: sono 22 mila le imprese chiuse, con un saldo negativo che si attesta a 12.976. A rincarare la dose, infine, anche il calo dei consumi: se ne sono persi ben 130 miliardi e di questi 31miliardi solo nell’ambito della ristorazione. E non è strano dal momento che nella ristorazione i consumi pro capite nel 2020 si sono attestati intorno ai 915 euro, addirittura inferiori al 1994 quando si aggiravano intorno ai 927 (fatte le opportune riconversioni di valuta).
Dopotutto era difficile che le cose potessero andare diversamente: non dimentichiamo, infatti, che quello trascorso è stato un anno scandito più dalle chiusure, che dalle giornate lavorative: da ottobre a maggio ben 192 giorni di misure restrittive con 50 giorni in rosso (chiusura totale) e 68 in arancione (chiusi i pubblici esercizi) e73 giorni di giallo. Alcune regioni hanno cambiato colore 19 volte: una vera odissea.
Quindi è perfettamente comprensibile come uno dei problemi principali segnalato dalle imprese sia stato il dovere fronteggiare un’operatività a singhiozzo e parziale. Uno stop and go sfiancante, mortificante e demotivante oltre che finanziariamente insostenibile.
Ma i nemici endemici, in questo annus horribilis, sono anche altrove.
Nelle conseguenze nefaste dello smart working sulla riduzione della domanda, per esempio. Altra grande criticità con impatti forti sul comparto dei servizi.
Infatti proprio la nuova modalità lavorativa da remoto (che prima del 2020 non era certo gettonatissima al punto che il 59% non lo praticava e il 14% solo una volta al mese) viene ora annoverata – come emerge dallo studio Fipe – tra le motivazioni principali (35%) che hanno indotto una riduzione dei consumi fuori casa.
E c’è di più: tra i lavoratori attivi ben il 40,7% ammette di rinunciare a fare colazione fuori casa essendo in smart working, mentre il 37,2%, per il medesimo motivo, conferma di rinunciare al pranzo fuori casa.
E sul prossimo futuro?
Non pare che questa modalità lavorativa ci abbandonerà facilmente: molti prevedono infatti che lo smart working possa durare diverso tempo (oltre 6 mesi per circa il 45% degli intervistati) e per diversi giorni alla settimana, in media 4 giorni alla settimana.
Ma chi è lo smart worker tipo, quello a cui, di questo passo, si dovrà rinunciare o che si dovrà riconquistare con strategie alternative?
So tratta innanzitutto – spiega Fipe - di una platea vasta, composta da circa 7 milioni di lavoratori (ovvero il 26% degli occupati). Si evince una prevalenza di donne appartenenti sia alle fasce più giovani sia a quelle più anziane e si nota una diffusione maggiore del lavoro da remoto, per ovvie ragioni, tra gli abitanti dei grandi centri urbani.
Soluzioni per riconquistare il lavoratore perduto?
Ingolosirlo con ciò che sia in grado di apprezzare, anche alla luce del radicale cambio socio-economico intervenuto in quest’ultimo anno. Ovvero, stando alle preferenze espresse dal campione, con un’offerta ampia di servizi innovativi e attuali (delivery e take-away), con una proposta distintiva e di qualità, ma che sia anche sostenibile e non disdegni la convenienza di prezzo. Se poi si lavorasse anche a una comunicazione efficace ed efficiente, la partita avrebbe più probabilità di essere vinta…
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A cura di Matteo Cioffi
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