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14 Luglio 2016BERE BENE IN DISCOTECA, MISSION POSSIBILE Filo conduttore della quarta edizione di Zero Design Festival è stato il tema “bere bene nei locali della notte, nei club e nelle discoteche”. Di certo esistono ancora molti margini di crescita. «Seppur non esista una regola vincente sic et simpliciter, per garantire qualità nei locali della notte bisogna puntare su long drink semplici e di qualità nel segno di distillati e toniche premium. Non consiglio invece di puntare sui cocktail ricercati ed elaborati, che richiedono molti strumenti per la preparazione e bicchieri non funzionali al luogo», sostiene Yuri Gelmini del Surfer’s Den. Sulla stessa linea è Oscar Quagliarini, del Bove’s di Milano, che per i clienti del Plastic ha realizzato La Rivoluzione, un long drink a base di whisky Ardbeg 10 anni e di Spuma Nera Baladin, una bibita parente del Chinotto. «I tempi concitati non consentono di proporre cocktail complicati. Occorre quindi puntare su materie prime eccellenti e creare una bella carta di long drink semplici, veloci, di carattere», afferma. Insomma, le parole chiave sono qualità e semplicità. Detto questo, la sfida maggiore resta quella di convincere i gestori a investire in distillati premium. Impresa difficile, ma non impossibile. «Qualche anno fa, tra i gestori di club e di discoteche c’era una minore cultura del bere miscelato. La nuova generazione di imprenditori della notte invece è più preparata e disponibile a investire sulla qualità», commenta infatti Edoardo Nono patron del Rita & Cocktails di Milano. Infine, un’osservazione di carattere logistico: «Per servire con la massima efficienza la clientela di club e discoteche bisognerebbe aumentare il numero delle postazioni bar, dislocandole in modo strategico e funzionale al flusso del locale» osserva Diego Ferrari, della Rotonda Bistro.
DAL FUTURISMO AL FUTURO: ALLA RISCOPERTA DELLA TRADIZIONE ITALIANA DEL BERE MISCELATO Tra i seminari di spicco, un approfondimento merita quello dedicato all’influenza del Futurismo sul mondo dei cocktail italiani. Già, perché il movimento fondato da Filippo Tommaso Marinetti non sovvertì solo le regole dell’arte, del linguaggio, della comunicazione e della cucina, ma anche quelle della miscelazione. Che cosa abbia rappresentato il Futurismo per il mondo del bere miscelato nostrano lo spiega bene Fulvio Piccinino, autore del libro “La miscelazione futurista” e del sito Saperebere. «A differenza dei drink americani, basati sul bilanciamento acido-zucchero-spezie, quelli futuristi puntavano sull’equilibrio dolce-salato», puntualizza l’ex barman, che a Zero Design Festival insieme a Yuri Gelmini e Fabio Tarroni ha tenuto un seminario dedicato proprio alla miscelazione futurista. «Così ecco ‘polibibite’ (vietato all’epoca usare parole straniere) che accostavano dolce e piccante come il Brucia in Bocca, con amarene riempite di pepe nero. Gli ingredienti principi erano grappe, vini, vermut, amari, bitter. Inoltre, per i futuristi era importante la presentazione in un tripudio di decorazioni plastiche, meglio se tridimensionali: datteri ripieni o arrotolati nel prosciutto, cubetti di formaggio con cioccolato, succhi di frutta congelati…». Last but not least, la miscelazione futurista non dettava regole esatte sulle dosi, lasciando al barista la libertà di sperimentare. Come mai? Perché per Marinetti «ogni errore di dosaggio potrà dar vita ogni volta una ricetta diversa». E oggi qual è lo scenario? «Assistiamo a un ritorno alle origini dopo la crisi della miscelazione degli anni Ottanta e Novanta e il boom dei format legati a tradizioni straniere, dagli speakeasy ai tiki bar. Tuttavia, vanno per la maggiore prodotti stranieri come mezcal, tequila, pisco e dimentichiamo di usare grappe e amari nostrani, eccellenti e unici nel mondo», commenta Piccinino. «Il fatto è – aggiunge Yuri Gelmini – che troppo spesso la liquoristica italiana rimane chiusa in ambito regionale. Eppure si tratta di liquori meravigliosi, prodotti con ingredienti spontanei o coltivati in zone limitatissime». «Oggi, al di là del Negroni riportato in auge da Luca Picchi, la storia della miscelazione made in Italy rischia di essere dimenticata», conclude Piccinino. «La mia idea è quella di proporre delle ‘neopolibibite’ con amari, distillati, frutti del nostro territorio: dall’amaro Segesta ai capperi di Pantelleria, dal liquore alle noci allo zafferano».
[caption id="attachment_101385" align="alignleft" width="232"] IL BARMAN GIAIME MAURI[/caption]
SIETE DA BOSTON O DA PARISIENNE? Alla quarta edizione di Zero Design Festival si è parlato anche degli strumenti fondamentali per chi lavora dietro al bancone, ripercorrendo la storia di due oggetti cult realizzati da Alessi, azienda simbolo del design made in Italy. Di cosa stiamo parlando? Dell’agitatore per cocktail 870, classico shaker a tre componenti nato nel 1957 dalla matita di Luigi Massoni e Carlo Mazzeri e venduto in oltre un milione di esemplari in tutto il mondo, e del Boston 5050 o “americano”, disegnato nel 1979 da Ettore Sottsass grazie anche al contributo di Alberto Gozzi, che condusse una meticolosa ricerca sugli utensili professionali per il bar. «Il Boston shaker Alessi è l’oggetto che più mi mette in contatto con la natura artigianale della professione», spiega Edoardo Nono, intervenuto all’incontro con Alberto Alessi, presidente dell’omonima azienda piemontese, Carlo Mazzeri, Alberto Gozzi e Oscar Quagliarini. «Ricordo quando muovevo i primi passi nel mondo della miscelazione – continua Nono – e il passaggio dal classico shaker a tre pezzi al Boston rappresentò per me un enorme passo avanti». A proposito di dimensioni. Un classico Boston può consentire di preparare fino a quattro cocktail contemporaneamente. Oscar Quagliarini ha ideato per primo un’alternativa più compatta sulla base del Parisienne. «Dopo la fase iniziale con il Boston, mi sono affezionato al Parisienne. A un certo punto, però, ho sentito l’esigenza di disporre di uno strumento più piccolo per la preparazione di un solo cocktail. Dal momento che non esisteva sul mercato, ho studiato un prototipo e l’ho fatto realizzare», racconta Quagliarini. La sua linea di bar tool si chiama Cocktail First Question Later ed è acquistabile anche in versione personalizzata. «Proprio da quell’esperienza è nata l’idea di dare vita a “Matrioscar”, un kit da viaggio che, nello spazio di un classico Parisienne da mezzo litro, include anche tutti gli accessori, in vendita anche separatamente», conclude.
Sono stati ben 16 i professionisti del bere miscelato di Milano impegnati a quattro mani dietro al bancone del Plastic, dalle 20,15 alle 4 del mattino, domenica 20 marzo. I loro nomi? Enrico Contro (Pravda Vodka Bar), Fabio Spinelli (Santeria Social Club), Federica Negri (Twist on Classic), Diego Ferrari (Rotonda Bistrò), Giaime Mauri (Belvedere Italian Ambassador), Tommaso Cecca (Trussardi Cafè), Michele Hu (Chinese Box), Francesco Cilento/Massimo Saccone (Turnè Night Bar),Terry Monroe (Opera 33), Maurizio Stocchetto (Bar Basso), Francesco Cione (Octavius Bar/Replay The Stage), Mattia Pastori (Mandarin Bar), Corrado Bonfanti (Bar Cuore), Franco Tucci Ponti (Atomic Bar), Danilo Spencer (Elitabar) e David Grigolato (Ugo Bar). Ma l’esperimento del bancone condiviso era già iniziato venerdì 18 con Flavio Angiolillo (proprietario del Mag), Mattia Lissoni (patron del Pinch), Oscar Quagliarini (barman del Bove’s) Edoardo Nono (titolare del Rita di Milano). Che lancia un appello: «Per il futuro, propongo a Zero e ai colleghi di organizzare una maratona di barman a fini benefici, devolvendo l’incasso a una Onlus impegnata nel sociale». Un’idea che piace tra gli altri a Tommaso Cecca, che però aggiunge: «Per migliorare la maratona, ho due proposte. Primo, consiglio di creare una postazione bar fuori dall’area dance, in modo da consentire al barman di presentare i drink ai clienti, seppur in modo rapido e sintetico. Perché è essenziale fornire informazioni al cliente, raccontargli una storia e quindi emozionarlo, divertirlo e incuriosirlo. Secondo, per trasmettere la cultura del bere di qualità suggerisco di dotarsi di bicchieri di plastica migliore, se non è possibile usare il vetro per ragioni di sicurezza».
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