17 Luglio 2018
I cliché del vino sono duri a morire: dal rosso solo con la carne, al vino bianco bevuto freddo e giovane. Il nostro paese è invece pieno di vini bianchi, specie quelli da uve autoctone, che sanno esprimersi in maniera personale, e quindi riconoscibile, oltre a vantare una grande capacità d’invecchiamento. Tengono bene il tempo, e non parlo di ritmo, diversi bianchi del sud, penso a quelli dell’Etna o a quelli campani, ma anche per molti ‘sorsi pallidi’ del nord le ‘rughe gustative’, caratterizzate da precoci evoluzioni, sono un falso problema. Proprio per questa abbondanza, incrementata numericamente da attenzioni e tecnologie in cantina in grado di allungare la vita post imbottigliamento anche a varietà che non avevano questa longevità nel proprio DNA, ci si è un po’ dimenticati di quel vino bianco piemontese che si chiama Gavi.
UNA DOCG DA ANNO MILLE
Il fatto che molti –sbagliando- considerassero poi il Piemonte come una regione da red passion, non ha di certo aiutato il Cortese: uva bianca con cui si produce il Gavi. Dicono che per ricordare meglio qualcosa si possano utilizzare le analogie.
Detto fatto, visto che la zona di produzione di questo vino è composta da ben 11 comuni come quelli che caratterizzano, sempre in Piemonte, l’area da cui nasce il Barolo. Il parallelismo non viene meno anche rispetto alla qualità, tutelata, per il Gavi, con una Docg che risale agli anni ’90, anche se la sua fama ha una datazione addirittura anteriore.
Bisogna andare indietro sin nel 972, anno a cui risale la prima testimonianza scritta relativa ad un atto di affitto da parte del vescovo di Genova a due gaviesi, in relazione ad alcuni vigneti in località Meirana; ancor’oggi uno dei terroir più vocati.
Senza scomodare la leggenda della principessa Gavia che pare abbia dato il nome a vino e cittadina omonima, la storia del Gavi procede spedita nel tempo, ma anche nello spazio, come dimostra il fatto che il marchese Andrea Doria volesse esportare questo vino in America sul finire del ‘700, mentre 100 anni dopo Giacomo Traverso lo fece conoscere agli Argentini, ai Tedeschi e a tante altre nazioni.
VOCAZIONE ALL’EXPORT
Questa sua tendenza ad andare lontano – in questo caso parlo di distanza – è parte integrante dell’attualità del Gavi. Lo dimostra il fatto che circa l’80% della produzione totale, siamo oltre i 13 milioni di bottiglie, vada all’estero. Personalmente credo sia una cosa molto buona per il vino e anche per il suo territorio di produzione, che la diffusione internazionale avvenga tramite un vitigno autoctono e le sue tipologie espressive (il Gavi può essere: fermo, frizzante, spumante, riserva e metodo classico riserva). D’altro canto mi spiace che il Gavi non riesca ad essere ‘forte’ nel proprio paese, anche perché immagino che possa risultare strano per uno straniero che magari a casa propria apprezzi e consumi il Gavi, non ritrovarselo, una volta arrivato in Italia per lavoro o per svago, nelle carte dei ristoranti. Un peccato specie se pensiamo che un’ulteriore dote del vino a base di uva Cortese sia proprio la grande agilità in fatto di abbinamento. Non parlo solo di quella versatilità che si deve alle diverse tipologie (fermo, spumante...), ma anche in rapporto, come detto, alle sue naturali capacità di evolvere in bottiglia. Un vino che rimanendo sempre elegante, sapido e agrumato regge il pescato più delicato, così come con alcuni – anzi no con numerosi – anni spesi a maturare in bottiglia, sia in grado di reggere anche un ingrediente dal gusto molto pronunciato come il tartufo bianco.
Romagnolo verace, Luca Gardini inizia giovanissimo la sua carriera, divenendo Sommelier Professionista nel 2003 a soli 22 anni, per poi essere incoronato, già l’anno successivo, miglior Sommelier d’Italia e – nel 2010 – Miglior Sommelier del mondo.
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A cura di Matteo Cioffi
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