caffè
31 Luglio 2018Sono con un collega cinese in stazione a Nanjing, ci stiamo godendo una cena veloce prima che io prenda il treno che mi porterà ad Hangzhou. Lui è un giovane trentenne originario dello Xinjiang, ha prestato servizio nell’esercito con in tasca una laurea in scienze agrarie. Poi ha incontrato il caffè e se ne è innamorato: con la sua formazione tecnica non gli è stato difficile appropriarsi dei segreti della pianta, dei suoi frutti e dei suoi semi. E da lì studiare e tostare, tostare e studiare.
INVESTIMENTI E FORMAZIONE
Il discorso scivola proprio su come un giovane cinese possa avere accesso al mondo del caffè. Essenzialmente ci sono due vie, mi spiega. La prima richiede investimenti rilevanti perché si inizia un percorso di formazione personale attraverso una scuola del caffè e da lì si procede in una serie di corsi. È una via che per i suoi costi non tutti possono permettersi, soprattutto quando si ambisce a delle certificazioni internazionali. La seconda modalità è quella del mondo del lavoro: solitamente si entra in un locale e si riceve una prima formazione. Questa via è praticata soprattutto da migliaia di ragazzi e ragazze che ogni anno sono reclutati dalle grandi catene nazionali e internazionali presenti in Cina. Quelli bravi e caparbi potranno ambire a ricevere ulteriore formazione e a salire di grado nella struttura. In questo senso, mi racconta il collega cinese, le grandi realtà sono estremamente positive per i giovani. Gli esercizi commerciali, e soprattutto le grandi catene, si trovano quindi a rivestire in una certa parte del mondo una funzione che sarebbe propria della scuola. In breve, non essendoci da parte del sistema scolastico un’offerta adeguata, oppure essendoci ma a costi non accessibili, la porta d’ingresso è direttamente il banco del bar: ciò vuol dire però anche l’accesso a un’importante formazione di base, altrimenti non disponibile.
DALLA CINA ALL’ITALIA
Ora la situazione italiana non è purtroppo difforme da quella appena descritta, ma con un’aggravante: spesso non si riceve neppure una formazione minima. Non esistono in Italia corsi universitari specifici per il caffè, figuriamoci per le figure più operative della filiera (leggi: i baristi). Le scuole alberghiere soffrono di un sistema educativo privo, e costantemente privato, di risorse e non sono quindi sempre in grado di erogare formazione adeguata (nonostante l’appassionato attivismo di alcuni professori). Nei casi migliori si trova un titolare del bar che si prende a cuore il proprio staff e va a colmare le lacune, in quelli peggiori le giovani leve sono abbandonate a se stesse (o addirittura fuorviate dalla trasmissione di cattive pratiche e abitudini che le segneranno a lungo). Il problema in Italia è che il percorso formativo si interrompe ancora prima di cominciare.La colpa è di un sistema scolastico in una caduta libera che è solo parzialmente contrastata dai datori di lavoro più illuminati (tramite anche il supporto di alcuni operatori della filiera come le torrefazioni o le aziende costruttrici di attrezzature). Eppure quanto sarebbe tutto più facile con un sistema educativo davvero efficace? E non solo per quanto riguarda il mondo del caffè.
L’autore è Consigliere dell’Istituto Internazionale Assaggiatori Caffè e Amministratore del Centro Studi Assaggiatori www.assaggiatoricaffe.org
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