03 Dicembre 2019
Difficile, quasi impossibile restituire in poche parole la magia e, non in subordine, il livello di assoluta eccellenza raggiunto dall’enologia siciliana in questi ultimi anni. Sarebbe necessario andarci di persona, come ultimamente ho avuto la fortuna di fare spesso, e – assaggio dopo assaggio – vedersi dischiudere davanti agli occhi le forme di questo grande ed impenetrabile miracolo. Del resto i confini del mistero sono ragguardevoli, dato che – se dobbiamo prendere per buoni i ritrovamenti più recenti, ovverosia quelli sul Monte Kronio (odierna Sciacca) – la viticoltura isolana sarebbe tra le più antiche attestate al mondo, vecchia di circa 6.000 anni.
PARTIAMO DAGLI INIZI
La versione tradizionale, invece, dà per certo che tra la colonizzazione Fenicia (VIII-VII secolo a.C.) e quella Greca (VII-VI) nella Sicilia Orientale, alla presenza di un territorio straordinariamente vocato, si diffuse rapidamente la viticoltura, fin da subito con l’utilizzo della metodologia tradizionale, scelta in grande maggioranza anche ai nostri giorni, ovverosia la coltivazione cosiddetta “ad alberello”. Nel ‘700, poi, il fenomeno del Marsala (ricordiamo, il primo DOC certificato della Penisola) contribuì a mettere ‘sulla mappa’ quella che ai tempi era considerata una meta esotica, magnifica ma anche inarrivabile, legata, anche per i marinai più rodati, alle superstizioni da mondo antico di Scilla e Cariddi.
LA MAPPA DEL VINO ISOLANO OGGI
La situazione attuale, invece, parla molto chiaramente: quella siciliana è una delle prime produzioni italiane per quantità (la quarta, nel 2018, con circa 5 milioni di ettolitri complessivi) e di gran lunga la prima come superficie vitata, con 106 ettari totali. Una “Major Wine-Region” con una chiarissima inclinazione per i territoriali, presenti in maniera quasi esclusiva, se si eccettuano Chardonnay e Syrah, comunque diffusi in versioni soddisfacenti: Sicilia sudorientale con il Nero d’Avola, oggi il vitigno a bacca rossa più diffuso, e poi ancora la zona dell’Etna, con Nerello Mascalese e Nerello Cappuccio, oltre a Carricante, Catarratto e Inzolia, e ancora la Sicilia sudorientale, con il Frappato, la Sicilia nordorientale con il Nocera e Perricone, Grillo, Grecanico, Corinto nero nell’isola di Lipari, e finalmente Malvasia e Moscato.
[caption id="attachment_167180" align="aligncenter" width="760"] Con una produzione di circa 5 milioni di ettolitri complessivi, la regione ha una chiara inclinazione per i territoriali[/caption]
UN MIX DI INVESTIMENTI E… MAGIA
Un trionfo di sapori, gusti e mineralità che raccontano la storia di una Regione d’elezione, certo, ma nella quale si è anche, molto meno oniricamente, investito. E molto. Impianti, attrezzature, cantine, competenze tecniche, convinzioni e intendimenti marcati, sostenibili e in alcuni casi di viticultura eroica. Questo, ed un tocco di magia in bottiglia, hanno fatto la differenza. Un movimento che rinasce, rivoluzionariamente, tre la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo millennio, innestandosi su una tradizione fortissima, di imprese e produttori che negli anni hanno spostato baricentri commerciali a livello mondiale (Florio, Vini Corvo, Cantine Pellegrino, Planeta, Firriato, Tasca d’Almerita, Cusumano, Donnafugata) proseguendo una storia di fedeltà incrollabile ad un territorio complesso ma fascinoso, che ora raggiunge il meritatissimo lustro, nazionale e internazionale. I nuovi riferimenti sono Cos, Cornelissen, Occhipinti, che si muovono tra tradizione e innovazione con spirito dinamico, inesausto e orgoglioso.
DINAMISMO DI (NUOVI) NOMI
Io aggiungo qui i nomi di una sorta di nouvelle vague della nouvelle vague, un manipolo di produttori di grandissima qualità, tutti, non a caso, concentrati attorno alle pendici dell’Etna, testimonianza di un territorio di ricchezza inimmaginabile. Due firme antichissime, come Tornatore e Benanti, presenti fin dall’800 e ora rilanciati con fervore sulla scie dell’energia della seconda o terza generazione. Di questi segnalo per il primo l’Etna Rosso, una versione di mineralità sconvolgente, per il secondo l’Etna Bianco Superiore “Pietramarina”, gusto e sapidità. E poi ecco i due ‘nuovi’ – conferma del fascino di una professione sempre più responsabile di ‘cambi di vita’ drastici, e a volte illuminati – ovverosia Graci, sempre di Castiglione di Sicilia, di cui segnalo l’Arcurìa, bianco o rosso (splendidi esempi delle potenzialità di un approccio di rara competenza in vigna) e alla fine Pietradolce, giovanissima ma già molto significativa realtà catanese. Da assaggiare obbligatoriamente il loro Etna Rosso, sia il “Contrada Rampante” che il “Barbagalli”. Se rimarrete, come è capitato a me, senza parole, avrete già iniziato a familiarizzare con i contorni del Mistero.
Romagnolo verace, Luca Gardini inizia giovanissimo la sua carriera, divenendo Sommelier Professionista nel 2003 a soli 22 anni, per poi essere incoronato, già l’anno successivo, miglior Sommelier d’Italia e – nel 2010 – Miglior Sommelier del mondo.
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A cura di Matteo Cioffi
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