06 Marzo 2014
Creare valore attraverso la collaborazione e la fiducia reciproca un tempo era la norma, in famiglia così come nelle comunità locali. Lo è stato almeno fino a quando gli eccessi della globalizzazione e l’impersonalità del mercato non hanno spazzato via quasi totalmente il tessuto di solidarietà che univa piccoli commercianti, clienti, fornitori, finanziatori, lasciando il posto agli equilibrismi dei tassi di interesse bancari e agli slogan pubblicitari di massa. Ora qualcosa sta cambiando: le possibilità comunicative di internet consentono il recupero di una comunicazione orizzontale e paritaria tra individui. Proprio questo è il presupposto di quella che viene definita “economia collaborativa”: un insieme eterogeneo di pratiche emergenti che vanno dal baratto 2.0 alla coabitazione, passando per gruppi di acquisto e car sharing – tutte accomunate da un principio di condivisione e di partecipazione collettiva che si pone in netto contrasto rispetto all’idea di mercato economico come arena conflittuale orientata esclusivamente al profitto.
Di seguito affronteremo le opportunità e i pericoli dell’economia della condivisione dal punto di vista del Bar, concentrandoci in particolare sul fenomeno crowdfunding e sul rischio di concorrenza sleale derivante da servizi come quelli offerti da Airbnb e EatWith.
LA SCOMMESSA DEL CROWDFUNDING, IL FINANZIAMENTO COLLETTIVO
Il “crowdfunding” è uno degli esempi più noti e interessanti della nascente economia della condivisione. Significa letteralmente “finanziamento dalla folla”, e consiste nell’ottenere i soldi necessari per la realizzazione di un progetto artistico, sociale o di business grazie a piccole donazioni libere da parte di tantissime persone. Un fenomeno nato sul Web e cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni, con la nascita anche in Italia di una miriade di piattaforme digitali dove chiunque può condividere la propria idea, nella speranza che i visitatori la ritengano degna di un finanziamento (ad es. Eppela.com e Produzionidalbasso.com).
I dati presentati dalle ricercatrici Ivana Pais e Daniela Castrataro all’edizione 2013 della conferenza Crowdfuture parlano chiaro: sono oltre 52mila i progetti pubblicati su 30 piattaforme italiane monitorate, per un totale di 23milioni di euro di finanziamenti versati online dagli utenti.
Esistono quattro tipi di crowdfunding: 1) la donazione 2) il prestito personale o “social lending” 3) il crowdfunding reward-based – si finanzia a fondo perduto un progetto (come la produzione di un disco da parte di una band) per avere qualcosa in cambio (ad es. una copia del disco finanziato) 4) l’equity crowdfunding – il finanziatore acquisisce una quota di partecipazione nell’azienda che ha sostenuto economicamente.
Per quanto riguarda quest’ultimo tipo, il più interessante da un punto di vista business, sulla base della normativa Consob possono usufruirne soltanto piccole aziende nel settore dell’innovazione tecnologica (definite “start-up innovative”). Escludendo a priori la fattibilità di una donazione disinteressata, al ristoratore 2.0 che volesse tentare la via del crowdfunding restano aperte soltanto le porte del prestito personale e del finanziamento “do ut des”. Su siti di social lending come Smartika.it si possono ottenere finanziamenti fino ad un massimo di 15mila euro, pagando un tasso di interesse mediamente inferiore rispetto ad un prestito bancario. Se l’obiettivo fosse invece, ipotizziamo, raccogliere fondi per l’apertura di un Bar, si potrebbe tentare un crowdfunding reward-based a livello locale – promettendo ai donatori di offrire loro la cena a “missione compiuta”.
Una campagna di crowdfunding non è una passeggiata: va pianificata e comunicata adeguatamente a tutti i potenziali interessati, tenendo conto del fatto che gli utenti privilegiano progetti di stampo sociale, culturale, innovativo.
Ciò non significa che il crowdfunding non possa servire anche nel mondo della ristorazione: è il caso di Carmen e Maggie – due cuoche statunitensi specializzate in ricette naturali e anti-allergiche che, per coronare il sogno di aprire un locale tutto loro, hanno chiesto una mano ai crowdfunders online. Risultato: la campagna ha raccolto un totale 4000 dollari, subito investiti nella nuova cucina.
L’ECONOMIA SOCIAL E IL RISCHIO “FAR WEST”
Non è tutto oro quel che luccica. Sebbene sia difficile non restare ammaliati dal fascino di un modello economico capace di rimettere al centro la fiducia reciproca e la relazione interpersonale, alcuni sviluppi della sharing economy possono presentare controindicazioni, specialmente per i professionisti del settore Ho.re.ca.
È il caso di Airbnb.it, servizio online per affittare o prendere in affitto la propria casa per periodi limitati di tempo, e del suo “cugino” EatWith.com, attraverso cui i privati possono improvvisarsi ristoratori a casa propria. Il primo, diffuso anche in Italia, è oggetto di numerose polemiche a causa del vuoto normativo che consente ad un privato mettersi in diretta concorrenza con un bed & breakfast dotato di licenza. Stesso discorso per EatWith, non ancora sbarcato da noi: dietro la promessa dell’esperienza autentica dello scoprire (a pagamento) i sapori “veri” della gente “reale” si nasconde l’evidente asimmetria burocratica tra amatore e professionista, che pende nettamente a favore del primo.
Alcuni sviluppi dell’economia della condivisione rischiano di condurci verso un “Far West digitale” privo di controlli e autorizzazioni, a tutto danno degli esercenti regolari e vessati burocraticamente, nonché della tutela dei consumatori
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