09 Aprile 2013

Un tè al bar

di Anna Muzio


Un tè al bar

Il tè, bevanda antica arrivata in Europa 400 anni fa, sta vivendo una seconda giovinezza. Proponendosi nelle sue infinite varietà. Perché il tè non è solo Ceylon, come il vino non è solo Chianti o la birra lager. Esistono tè verdi, bianchi, neri, gialli, oolong e Pu-erh. I consumatori stanno iniziando a distinguere le varie tipologie, tanto diverse per aroma, gusto o occasione d’uso. E anche per il tè si inizia a parlare di “terroir”. Tè verdi per il pesce, tè Bancha digestivo, Darjeeling ghiacciato come apertivo, Earl Gray o Lapsang Souchong con secondi di carne... I ristoranti lo propongono, riprendendo un’antica tradizione orientale, a tutto pasto o abbinati a un particolare piatto. E la Camellia sinensis entra anche in cucina, dove alcuni grandi chef (da Berton ad Alajmo, a Vissani) sperimentano aggiungendo infusi o foglie alle proprie creazioni. Pietro Leeman crea cocktail analcolici a base di tè. E a fine pasto fa capolino una ricca carta dei tè che ne distingue tipologie e provenienza. In spa, hammam e centri benessere è accolto per tradizione e per le sue proprietà antiossidanti e benefiche, confermate da studi scientifici recenti. Anche nel miscelato, il tè diventa ingrediente per nuove ricette come il Royal Tea creato da Beefeater in onore del film The Queen. Il tè insomma esce dalle occasioni tradizionali della colazione e del “tè delle cinque” e inizia a proporsi anche da noi come bevanda da consumare tutto il giorno. L’Arte del Ricevere propone i “tè per ufficio” per palati maschili (“note tanniche e rinvigorenti”) e femminili (“bergamotto e fiori blu per inaugurare la giornata”), e a seconda dell’umore (rilassante, energizzante ecc).

I produttori scendono in campo
Proporre un tè a questi livelli non è facile. La grande distribuzione spinge le private label ed è sempre più difficile assicurarsi uno spazio tra gli scaffali. Alcuni produttori hanno quindi pensato che l’unico modo per costruire un’esperienza coinvolgente con il consumatore sia quello di aprire punti vendita propri. «Avere locali a proprio marchio consente di avere un contatto diretto con il consumatore finale che è sempre più consapevole ed esigente – conferma Riccardo Illy presidente gruppo Illy che nel 2007 ha acquisito la maggioranza di Damman Frères, storica azienda francese -. Consente inoltre di moltiplicare i momenti di incontro, come corsi di degustazione che avvicinano al tè e al suo mondo fatto di ritualità, profumi, oggetti, atmosfere.
Noi li proponiamo presso l’Università del caffè che ha sede a Trieste e a Roma e realizziamo spesso degustazioni e incontri per avvicinare il cliente al consumo del tè di qualità».
La prima boutique monomarca Damman in Italia ha aperto recentemente a Milano, e propone, oltre a svariati tipi di tè, infusi, tazze e accessori per il rito del tè, degustazioni quotidiane. A riprova delle potenzialità del prodotto c’è la recente acquisizione di Teavana da parte di Starbucks. Un passo indietro sembra averlo fatto invece Twinings che nel 2011 dichiarò di voler aprire una catena di punti vendita con proprio marchio. «In realtà l’unico esercizio permanente resta il nostro negozio nello Strand a Londra - spiega Fabio Pesce, General Manager Twinings Italia -.  Di tanto in tanto Twinings sperimenta l’apertura di negozi in giro per il mondo, ma si tratta di azioni tattiche dettate da situazioni contingenti: ora abbiamo una boutique a Bangkok. In questi luoghi ci divertiamo anche a dare dimostrazione della nostra vera abilità, quella di saper miscelare i migliori tè, creando miscele speciali adattate ai particolari gusti dei clienti».

Anche al bar si rinnova
Certo, in Italia i numeri sono ancora modesti e la gran parte del consumo di tè avviene ancora in casa. Ma c’è ampio spazio di crescita per tutti secondo Riccardo Illy, che esclude un rischio di cannibalizzazione con il caffè, specie al bar.
«La convivenza tra caffè e tè non è solo possibile ma anche auspicabile per aumentare e diversificare l’offerta da parte del classico bar.
La larghissima parte dei bar ha sviluppato un settore food per il consumo di pasti veloci, attrezzandosi con tavolini che invitano a una permanenza più lunga nel locale: nelle aree così attrezzate è possibile consumare un prodotto che ha tempi di fruizione più lunghi, con un approccio più slow. Sono sempre più numerosi i locali che offrono una carta dei tè, con diversi livelli di complessità e propongono una gamma più ampia di prodotti, in maniera più ricca e articolata». Secondo Fabio Pesce non esiste alcuna barriera a proporre un tè di qualità al bar, «neppure quella economica. Il costo di una bustina di tè è irrilevante rispetto al suo prezzo servito al bar. Credo invece che tutti i bar abbiano solo da guadagnare in qualità ed immagine se propongono un buon assortimento di tè invece che la singola bustina standard».
L’alto valore aggiunto rende insomma il tè un prodotto interessante per chi lo propone. A patto di sapere educare il consumatore – e, prima, di educare se stessi.

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