bevande
09 Marzo 2020Piccoli o da asporto, gestiti da giovani che sono cresciuti e hanno studiato in Italia, frequentati da cinesi e italiani curiosi, con ingredienti tracciati e di qualità e ricette tradizionali che pescano dalla tradizione delle regioni meno esplorate: Sichuan, Hunan, Dongbei. Sono i nuovi ristoranti cinesi aperti negli ultimi anni in quel laboratorio di trend culinari che è Milano. Nelle zone più vivaci, nella storica “Chinatown” di Paolo Sarpi ma, soprattutto, nell’emergente quartiere di NoLo (North of Loreto) fino a poco fa stigmatizzato (ed evitato) per l’alto tasso di immigrazione e oggi fucina di talenti. Abbiamo parlato con i protagonisti di questa nuova onda cercando di capire come è nato il trend. E se ci sono delle idee da cui prendere spunto – come crediamo – mutuandole anche in altre cucine, italiana compresa.
“Stiamo cercando di portare un cambiamento: io non vengo da una famiglia di ristoratori, sono partito da zero e ho creato un ristorante come me lo immaginavo io – dichiara subito Huijian Zhou. Tutto comincia nel dicembre 2015 con la pionieristica ravioleria Sarpi – “Iniziativa coraggiosa, o meglio, incosciente perché non si era mai visto un posto piccolo che serviva solo ravioli di qualità, fatti al momento a vista e con ingredienti certificati. C’erano troppi miti da sfatare sul cinese come ristorante di basso prezzo e bassa qualità. Del resto la lavorazione e la cottura a vista si rifanno alla tradizione cinese”. In particolare quella di Donbei, a nord-est della Cina, una zona grande tre volte l’Italia, con una cultura profonda del raviolo. A marzo 2018 arriva ‘Le Nove Scodelle’ con una cucina particolare di una regione meno nota, il Sichuan. “Pochi piatti semplici che riprendono la tradizione e non necessariamente rispecchiano la cucina che si trova ora in Cina. Siamo andati a studiare testi molto antichi. E ci siamo rifatti all’usanza di preparare nove portate durante le feste (nove è un numero importante per la cultura cinese), servite insieme studiando l’equilibrio tra i piatti, un pensiero che combacia con quello che vogliamo fare. Sono piatti forti, non è una cucina per compiacere. Usiamo carni selezionate piemontesi, uova a chilometro zero, farina biologica. Viene tutto dall’Italia tranne il pepe di Sichuan”. Originario dello JiJhian nel sud della Cina da dove sono arrivati i primi ristoratori cinesi, Zhou si è laureato in Economia in Italia mentre il socio è cuoco.
Come è stata accolta la vostra scelta? “Gli italiani la capiscono meglio dei cinesi, sono più attenti, vogliono avere la sicurezza di mangiare un cibo con materie prime di qualità e sano”.
La gente ha bisogno di qualcosa di autentico, locale? “Si cerca una cucina nuova, particolare, un gusto forte in un mondo sempre più omologato anche nei sapori. E la cucina cinese è ricca e diversa, ha una varietà infinita”. Ne arriveranno altre? “Lo spero, i cinesi sono noti come coloro che copiano ma abbiamo 6000 anni di storia, stiamo solo scalfendo la superficie di un capitale immenso. A Milano ci sono tanti giovani che cucinano cose nuove, io spero che portino qualcosa di genuino, autentico e bello”.
“Con MU dimsum abbiamo voluto aprire un anno fa un ristorante per fare capire cosa è veramente la cucina cantonese, e in particolare di Hong Kong – spiega Suili Zhou, anche lei nata in Cina e cresciuta in Italia – Volevamo sfatare l’immagine della cucina cinese di bassa qualità, che con l’ondata dei sushi non è certo migliorata. In genere si pensa che un ristorante cinese abbia prezzi bassi, piatti poco digeribili e una pessima qualità. Tutte cose negative, io volevo portare qualcosa di positivo della mia cultura”. Il ristorante ha un ambiente elegante ma semplice, dove domina il legno (mu in cinese), è aperto da mezzogiorno a mezzanotte e propone ravioli e bao anche nel pomeriggio, secondo una visione tipicamente orientale. Qualità e materie prime biologiche completano l’opera. Centrale alla proposta è il tè. “Stiamo programmando di offrire degustazione del tè nel pomeriggio con dim sum (pronuncia dim sam, i ravioli) abbiamo una carta con una decina di tipi diversi ma che amplieremo ulteriormente. Anche nei ristoranti giapponesi di alto livello il tè spesso non è all’altezza, noi oltre a una materia prima eccellente curiamo la temperatura dell’acqua e i tempi giusti per l’infusione”. A dicembre 2018 nasce la “creatura” street food MU bao a Torino. I panini ripieni cotti al vapore – tipico cibo da strada cinese – in sei versioni diverse sono preparati dallo chef Kin Cheung nel la oratorio di Milano. “In Cina si mangiano in strada, sono molto diffusi come da voi la pizza, è un altro modo per conoscere la nostra cultura e infatti li proponiamo, come da tradizione, con il latte di soia fresco che facciamo noi con una macchina apposita”.
Imprenditoria e spirito fai da te si mescolano nella storia di Mao Hunan, tra i primi ristoranti della nuova onda ad aprire in città. Come ci spiega Marco Iannone. “Mao è nato quasi per gioco da tre soci che facevano tutt’altro: io ingegnere gestionale, la mia ragazza Jieni Hu che lavorava a Class tv dopo essersi laureata in Bocconi come la sua amica Angela Lai. Sono originarie di Changsha nello Hunan, volevano riproporre i piatti che mangiavano da piccole. La difficoltà maggiore agli inizi? Far capire ai clienti italiani che il piatto cucinato secondo la tradizione era così come lo presentavamo noi. Tutti si lamentavano del piccante e abbiamo abbassato un po’ il livello senza però cambiare la sostanza. Abbiamo lottato per proporre quella cucina. Che ha anche ingredienti ai quali non siamo più abituati come frattaglie e zampe di gallina. Ora tanti clienti vengono solo per quelli”. Una success story che ha creato le sue “figliazioni”. Perché altra caratteristica di questi imprenditori Millennials è la capacità di diversificare la proposta declinandola secondo le varie esigenze e momenti della giornata. Passando dalla trattoria allo street food, o viceversa. “Abbiamo aperto Maoji prima e Mini Maoji poi dove proponiamo lo street food che si può trovare in una strada in Changsha come i bao e il riso in terracotta”. Il cuoco? “Siamo andati a cercarlo in Cina e ci ha dato una grossa mano perché gestisce la cucina e ora forma anche i cuochi degli altri ristoranti”. L’ultima avventura è un supermercato, Mood market, dove oltre a vendere prodotti tipici si preparano i ravioli, da asporto o da mangiare sul posto e c’è un bancone bar che propone cocktail creativi a base di liquori cinesi e giapponesi. Guardare avanti e proporre cose nuove a un cliente annoiato ma curioso, esigente ma in cerca di autenticità e qualità. In fondo, è una ricetta applicabile non solo alla grande – e bistrattata – cucina cinese. Basti pensare ai giacimenti di prodotti e pratiche culinarie del nostro Paese. È un lavoro impegnativo, una ricerca difficile da fare e da trasmettere. Ma la formula – come dimostra il caso milanese – può dare grandi soddisfazioni.
Le Nove Scodelle
Viale Monza, 4 - Milano (NoLo)
Ravioleria Sarpi
Via P. Sarpi, 27 - Milano (Sarpi)
Mu Dimsum
Via A. Caretto, 3 - Milano (Centrale)
Mu bao
Via Accademia delle Scienze, 2 - Torino
Mao Hunan
Via N. A. Porpora, 5 - Milano (NoLo)
Maoji street food
Piazza Aspromonte, 43 - Milano
(Città Studi)
(Maoji) Mini
Alzaia Naviglio Pavese, 6 - Milano
(Navigli)
Mood market
Via P. Sarpi, 41 - Milano (Sarpi)
L’ufficio studi Fipe/Confcommercio stima che l’allarme suscitato dalle notizie sulla diffusione del coronavirus stia mettendo in grande difficoltà la ristorazione cinese in Italia. Nei circa 5.000 ristoranti cinesi si registra una perdita di fatturato del 70% che tradotta in valori assoluti significa meno 2 milioni di euro al giorno. Se a questo aggiungiamo i 500 mila euro che i turisti cinesi in Italia spendono ogni giorno per mangiare la perdita complessiva della ristorazione è di 2,5 milioni di euro. E il Codacons (coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori) rilancia: “L’allarme Coronavirus sta provocando l’allontanando degli utenti che si tengono immotivatamente alla larga dai ristoranti asiatici nella errata convinzione che tali luoghi possano essere veicoli di contagio, ma soprattutto sta generando atti di intolleranza verso la comunità cinese, estremamente pericolosi e da stroncare sul nascere. Non esiste alcun pericolo nel frequentare esercizi gestiti da cinesi, considerato che il cibo servito viene acquistato in Italia. Il razzismo è senza dubbio più pericoloso e dannoso del coronavirus e si diffonde ad una velocità immensamente maggiore”.
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