bevande
18 Novembre 2014Il sistema dei buoni pasto è stato messo sotto la lente d’ingrandimento nel convegno “Aumentare i buoni pasto per aumentare i consumi” organizzato da Anseb- Fipe con Cittadinanzattiva. Obiettivo: portare ancora una volta all’attenzione della politica (il convegno si è svolto a poche settimane dalla presentazione del Def per la Legge di stabilità 2015) le incongruenze di un sistema che interessa 80 mila imprese private e pubbliche amministrazioni, 2,5 milioni di lavoratori, 120 mila esercizi convenzionati. E ha una soglia di deducibilità fiscale di 5,29 euro, fermo dal 1995.
Molti i valori intrinseci nei buoni pasto. Vi sono quelli di equità, come ha ricordato il vicepresidente Fipe Aldo Cursano: «Rafforzare i benefici fiscali e contributivi sul servizio sostitutivo di mensa serve da un lato a ridurre la pressione fiscale su lavoro e imprese, dall’altro a sostenere i consumi delle famiglie sempre più in affanno». Ci sono i valori in quanto strumento di welfare sociale, con la necessità di allargare la platea dei fruitori: meno del 20% dei 14 milioni di lavoratori dipendenti può contare su questo servizio. Si fa largo la necessità di allargare l’accesso ai buoni pasto anche a precari lavoratori a tempo determinato o part time, stagisti, in linea con i cambiamenti occorsi nel mondo del lavoro, dove i contratti atipici sembrano non considerare la necessità e i costi della pausa per il pranzo. Ci sono anche ragioni di consapevolezza alimentare e di corretta alimentazione, per Tina Napoli di Cittadinanzattiva: «La ristorazione in pausa pranzo costituisce un contesto privilegiato per favorire scelte alimentari corrette da parte dei consumatori. Non sottovalutiamo il fatto che l’Organizzazione mondiale della Sanità afferma che un pranzo equilibrato è in grado di aumentare la produttività del 20%, è essenziale da un punto di vista nutrizionale, psicologico e lavorativo: saltarla significa compromettere la produttività per il resto della giornata e il tempo che apparentemente si risparmia si perde». Valori intrinseci, ma anche criticità da superare. Ancora Cursano: «Un caffè nel 1995 costava 1.200 lire (0,62 euro), oggi 0,94 euro pari a un aumento del 52%. Tutto sommato la tazzina ha mantenuto un profilo inflazionistico moderato. Un panino costava 2.500 lire, oggi 2,90 euro. Il pane 3.800 lire/ kg., oggi 2,50. Il biglietto del tram da 1.000 lire a 1,50 euro, il quotidiano da 1.400 lire ad 1,40 euro». In questa rincorsa agli adeguamenti, la soglia di defiscalizzazione è rimasta ferma a 5,29 euro. Altra criticità, che sta molto a cuore agli emettitori, il sistema delle gare per il servizio sostitutivo della mensa: «Salvaguardare il valore facciale del buono mettendo argine al malcostume di gare che anziché creare valore lo distruggono - ha sottolineato Cursano - è un’altra delle priorità».
Su quest’ultimo aspetto una risposta è arrivata dal Vice Ministro Delegato, Trasporti e Infrastrutture Riccardo Nencini, mentre, sul primo, Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente di Strategia e Imprenditorialità alla Sda Bocconi ha illustrato i risultati di uno studio secondo cui «i buoni pasto sono il miglior modo di spendere per ridare fiato all’economia in quanto spesa indirizzata ai servizi interni. Per ogni euro di aumento del buono pasto possiamo ottenere fino a 300 milioni di entrate fiscali grazie all’effetto leva e un aumento di 1 decimo di Pil». Più nello specifico, secondo i calcoli di Carnevale Maffè, per ogni euro di aumento della soglia di deducibilità fiscale si generano da 200 a 330 milioni di gettito aggiuntivo netto di entrate fiscali, da 0,750 a 1,350 miliardi di valore aggiunto nazionale e fino allo 0,1% di aumento strutturale del PIL. In questa analisi Maffè ha trovato una sponda forte in Danilo Barbi, Segretario confederale Cgil, che ha aggiunto: «Il buono pasto va aumentato perché è un esempio di moneta complementare che circola solo nel mercato di utilizzo, una moneta che nulla deve alla finanza e ha quindi una funzione anticiclica. La ripresa può avvenire solo con politiche economiche espansive e l’aumento del buono pasto è un sostegno alla circolazione dei consumi».
La quota di deducibilità fiscale alla quale si punta sono quindi i 7 euro. Non è mancata al riguardo la risposta del Governo, con il Sottosegretario al Ministero Economia e Finanze Pierpaolo Baretta, che in sintesi, ha ricordato: che per il Governo la linea della riduzione del cuneo fiscale rimane importante anche nella difficoltà della finanza pubblica; che è intenzione del Governo affrontare il tema del buono pasto ma è necessario un inquadramento strategico più generale e che un euro di maggiore defiscalizzazione richiede di trovare 36 milioni di euro a copertura del minore gettito, a perimetro costante, senza allargare cioè la base dei lavoratori coinvolti. La missione non è impossibile ma richiede di ragionare sulle priorità delle voci nella finanza pubblica, ipotizzando una diversa scala di detraibilità in funzione del reddito per differenti voci di spesa che attualmente sono indipendenti dal reddito stesso, ha detto Baretta. Vale a dire che la coperta è corta e se si tira da un lato, ci si scopre dall’altro. Un provvedimento di adeguamento dei buoni pasto non ha solo ricadute macroeconomiche, ma ne avrebbe, secondo Carnevale Maffè, anche micro. Infatti, analizzando il contenuto di 100 mila scontrini di esercizi aderenti al circuito Noumeno («per la prima volta disponiamo di dati di sell out nel settore dei pubblici esercizi »), il docente rileva che «tutto il valore va in lavoro e in beni di provenienza prevalentemente nazionale: il pranzo vero e proprio (pasti, panini, pizze) costituisce il 53% del volume e il 78% del valore degli scontrini analizzati. Le acque minerali e caffetteria sono la seconda categoria più rappresentata, con un totale del 31% sul volume, ma solo del 9% del valore. Se ne ricava che la quota di valore aggiunto nazionale è stimabile in oltre il 99%, in quanto sono molto limitate in valore le voci relative a merci d’importazione, quali birre estere e liquori». Forse una voluta forzatura, così come provocatoria è stata l’affermazione, sempre di Carnevale Maffè, che alzare la detraibilità del buono pasto dia risultati migliori e più estensivi degli 80 euro del Decreto renzi sulla cui efficacia si è dibattuto questa estate. «Non bisogna contrapporre il bonus degli 80 euro con i buoni pasto - ha commentato Marco Causi, capogruppo Pd in commissione Finanza della Camera dei Deputati - perché è uno strumento complementare, non alternativo. Quanto all’impatto sul valore aggiunto nazionale, occorre rilevare che nell’alimentare la bilancia dei pagamenti è ancora saldamente passiva». E Baretta: «teniamo fermi gli 80 euro e occupiamoci delle altre questioni». Insomma, tutti d’accordo che i tempi sono ormai maturi per una revisione complessiva del sistema del buono pasto. Resta solo da vedere se e come un provvedimento in questa direzione sarà inserito nella Legge di stabilità.
Gare d’appalto e trasparenza: verso la fine del ribasso
Il tema delle gare d’appalto è sul tavolo di Anseb-Fipe da tempo. «Vi sono tante offerte anomale che vengono tranquillamente accettate - afferma Aldo Cursano - e duole rilevare che proprio la pubblica amministrazione ha fatto da apripista al sistema di gare che, pur se formalmente non classificabili come massimo ribasso, conseguono, di fatto, l’obiettivo di massimizzare i propri benefici a danno del sistema delle imprese. Non ci vuole molto per capire che una gara per l’affidamento del servizio sostitutivo di mensa non è omologabile a quella per il servizio di mensa tout court. Si tratta di due mondi opposti pur con il medesimo obiettivo: garantire un pasto a chi lavora». Non è mancata, nel corso del convegno, la risposta del Governo. Il Viceminsitro Riccardo Nencini ha infatti affermato che nella legge delega sul codice degli appalti, che il Governo sta scrivendo, saranno contenute norme per lo snellimento degli oneri documentali e per la verifica del sistema di parificazione delle imprese, oltre che un’attenzione particolare alle Pmi. «Ma soprattutto ci sarà uno stop al meccanismo dell’offerta più vantaggiosa, che in Italia, a differenza di altri Paesi europei, non funziona. Il nuovo codice degli appalti non solo è improntato a una maggiore trasparenza, vigilanza e controllo, ma anche alla certezza che un’opera bandita venga realizzata».
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