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15 Giugno 2016Tre stelle Michelin. Può bastare tutto ciò a fare di uno chef un grande chef? Nel caso di Massimo Bottura - patron dell’Osteria Francescana di Modena - sarebbe limitativo considerando lo spessore del
personaggio. Bottura è senza dubbio tra i più colti chef del nostro Paese e del panorama internazionale. Un successo planetario, ma che lui gestisce con grande umiltà e semplicità.
La stessa semplicità che ritroviamo nei suoi piatti e nelle sue parole.
In una recente intervista hai raccontato che la tua passione per la cucina nasce sotto il tavolo mentre guardavi la nonna preparare i tortellini. Si può spiegare così la tua crociata per salvare l’identità del nostro passato?
Non la definirei crociata perché nessuno ci ha rubato nulla, non è una riconquista, siamo noi che l’abbiamo smarrita. L’identità per definizione ci appartiene, dobbiamo solo guardarci dentro. Osservare quello che c’è attorno a noi e dietro di noi.
Hai detto (riferendoti ad artigiani, contadini e produttori) che rispetto, identità, responsabilità, saggezza e cultura sono gli attrezzi indispensabili per portare avanti la cucina italiana. Qual è l’obiettivo?
Fare sistema. Creare una sinergia che allo stesso tempo preservi la nostra cultura, ma la evolva nel tempo, mantenendola contemporanea e incisiva. Tutti siamo parte di questo sistema, non si lascia indietro nessuno, si coinvolgono tutti quelli che vogliono cooperare.
Hai scomodato J.F.Kennedy: “chiediti quello che puoi fare tu per il tuo paese, non quello che il tuo paese può fare per te”. Partendo da questo assunto, cosa può fare uno chef di fama come te per il settore?
Nel nostro piccolo penso che gli chef italiani debbano tornare a parlare di italianità e di prodotto italiano. Delle nostre eccellenze e dei nostri territori più nascosti. Da qui è nato il menu “Vieni in Italia con me”.
Ti riferisci al libro di cucina, diventato il menù delle sensazioni alla Francescana. Di cosa si tratta?
Tempo fa in un mercato dell’antiquariato, ho notato un libro di cui mi ha attratto il titolo: “Vieni in Italia con Me”. Sono racconti di cui è protagonista uno scapolo, Belgioioso, alla ricerca della donna ideale con cui condividere un percorso alla scoperta del nostro Paese. Eppure, viaggiando da nord a sud, egli si accorge di essere affascinato non tanto dagli incontri con le possibili compagne, quanto dalle bellezze dell’Italia.Trovo che l’amore incondizionato descritto nel libro rispecchi l’impegno e la ricerca che svolgiamo ogni giorno all’Osteria Francescana pescando nella dispensa infinita dei nostri sapori. Traduciamo i paesaggi e le sensazioni in piatti, invitando gli ospiti a far viaggiare il proprio palato con dinamica curiosità dalle Alpi a Pantelleria, dal Tirreno all’Adriatico, senza retoriche nostalgie. Noi siamo convinti che ci sia ancora tanto da valorizzare in Italia.
Attenzione al passato, ma anche contaminazioni?
Non userei la parola contaminare, che non suona bene usata in cucina. Direi piuttosto che la Francescana ha una cucina pensata da uno chef italiano. Intendo una cucina che nasce e rispetta la tradizione, il territorio e i suoi prodotti, ma con una curiosità, una disponibilità all'ascolto verso le altre culture. Ho come obiettivo quello di provare a comunicare emozioni attraverso i miei piatti. Diciamo, se vogliamo, una contaminazione saggia.
Ti senti più artista o artigiano della cucina?
Credo che l’arte sia qualcosa di ben preciso che attiene ai più profondi bisogni umani e che costituisce il frutto di un complesso processo creativo. Io non mi ritengo un artista, e ci tengo a sottolineare questo principio, ma un artigiano capace di concettualizzare le proprie realizzazioni che nascono dall’incontro di idee, culture, tecniche e gesti. Ciò significa non caricare il nostro lavoro di eccessive aspettative, ma al tempo stesso riconoscere che non vi può essere ricerca in cucina senza la voglia di esplorare e percorrere nuove strade in un processo che può essere definito creativo: solo in questo senso si possono riconoscere delle analogie rispetto al lavoro di un architetto, un poeta o un musicista. Man mano che ho imparato nuove tecniche e ho imparato a conoscermi meglio, la mia cucina si è evoluta approfondendo i concetti, utilizzando spesso l’ironia e cercando di abbattere barriere e preconcetti. Il mondo della cucina sta cambiando: c’è stato un grande mutamento negli ultimi 10 anni con un’evoluzione verso un modello ricco di contaminazioni che lasci spazio di crescita ai giovani chef di tutto il mondo. Penso che sia un periodo molto interessante e stimolante per il nostro mestiere. I miei colleghi danesi, newyorkesi, parigini, italiani, sudafricani, australiani o tedeschi stanno tutti reclamando un proprio spazio e una propria identità nel mondo della cucina spostando l’attenzione da una cucina istituzionale e pomposa a una cucina stagionale, fresca ed emozionale connessa al proprio territorio e alla propria anima.
Sei un fautore della collettivizzazione dell'arte culinaria. Non sei geloso delle tue ricette?
Assolutamente no! Stiamo comunque discutendo di cucina e nelle cucine la riproducibilità è un imperativo. Ogni mio piatto deve essere replicabile e riproducibile. La preparazione del piatto è lo stadio finale del mio percorso creativo, è la realizzazione tecnica, la traduzione fisica, oggettuale di una mia idea, intuizione, emozione. Il momento della traduzione non è il momento della creazione. La cucina non si affida a improvvisazioni o fortunate coincidenze. Quello che non è riproducibile è la mia testa.
Hai detto che i ragazzi che vogliono fare questo mestiere devono guardarsi dentro e cercare tre ingredienti: umiltà, passione e sogno.
In che senso e come vedi i giovani che si stanno avvicinando a questo mestiere?
Esatto, prima di tutto l’umiltà. Una parte di talento. Tanta energia, spirito di sacrificio. Duro lavoro giorno dopo giorno senza mai perdersi nella quotidianità. Rimanendo sempre con i piedi per terra e viaggiare, per un saggio confronto tra le culture. I giovani sono il futuro, bisogna metterli in condizione di imparare, devono studiare il più a lungo possibile, non devono entrare subito in cucina. E all’alberghiero devono andarci per scelta, non per imposizione o ripiego o, peggio ancora, moda. Solo se si ama studiare si può crescere, capire, approfondire gli interessi e trasformarli in passione ed entusiasmo. Solo in questo modo si potrà fare ricerca in cucina, ricerca sui prodotti o sulle tecniche senza inseguire le mode del momento.
Chef in TV. Cosa ne pensi di questo fenomeno? Non c’è il rischio che i giovani si avvicinino a un mondo che visto in tv è fatto di lustrini, ma che in realtà nasconde parecchie insidie. Ti vedremo mai partecipare a un reality come i tuo colleghi Cracco o Bastianich?
Come dicevo, sicuramente i giovani non devono avvicinarsi a questo mestiere per moda se non vogliono scontrarsi con la dura realtà. Personalmente non amo comparire in televisione.
Come vedi la cucina del futuro?
Per la cucina del futuro, come anticipato prima, vedo la necessità di fare sistema e creare sinergie sul territorio. Se chiedi a me come vedo il mio futuro, io sono solito dire che vedo altro futuro.
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