15 Gennaio 2020
Ormai è notizia conclamata, eppure l’attenzione, sia nel bene che nel male, sembra non scemare. Parliamo delle Colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene che dallo scorso agosto sono ufficialmente “Patrimonio dell’Umanità” dell’Unesco. La decisione è un riconoscimento al lavoro svolto in centinaia di anni di evoluzione, all’interno di un naturale invaso geografico che da Valdobbiadene giunge al Comune di Vittorio Veneto, un landscape inconfondibile, caratterizzato da colline morbide e vallate dolci, affiancate le une alle altre. L’intervento dell’uomo è stato importante, ma mascherato, come nei casi migliori di architettura paesaggistica, e soprattutto teso ad interpretare – e perfezionare – la naturale vocazione vitivinicola della zona.
FATTORE EXPORT
Fatto non secondario – e cosa interessante per noi – quei 15 comuni in cui si suddivide l’area sono la zona di produzione di quello che è tuttora il vino italiano più venduto al mondo. Se venissero confermate le proiezioni – tutto sommato realistiche – dei primi sei mesi del 2019, si arriverebbe infatti alla cifra impressionante di 1 miliardo di euro come valore totale dell’export. Un successo trascinato soprattutto dalla Gran Bretagna e, se vogliamo, accompagnato da una fortunata campagna comunicativa iniziata circa 10 anni fa e imperniata sul creare l’associazione mentale di Prosecco (uguale) aperitivo all’italiana. Un mondo di un tale interesse sia economico che mediatico, che ‘cuba’ 466 milioni di bottiglie prodotte nel 2017 (in lieve calo) e ben 550 nell’ultima annata, tuttavia, è difficilmente privo di complessità. Intanto le denominazioni: nella zona strettamente Unesco (circa 10 mila ettari coltivati) sono già tre, Prosecco Superiore DOCG (tipologia Conegliano Valdobbiadene), Rive e Superiore di Cartizze, cui si vanno ad unire la DOCG Montello e Colli Asolani e la DOC Prosecco, quest’ultima estesa su nove province di Veneto e Friuli Venezia Giulia.
BOUQUET ACCATTIVANTE E FESTOSO
Un nome sicuramente azzeccato, la presenza come prodotto-cardine in alcuni cocktail fondamentali quali Spritz, Bellini e Rossini, l’identificazione (come già era successo, in anni lontani, per lo Champagne) come prodotto diversivo, non particolarmente impegnativo e compagno delle ore liete, hanno contribuito a cementarne la fama, insieme ad un bouquet olfattivo-gustativo indubbiamente accattivante, giocato sui toni della frutta a polpa verde e dello sfalcio di campo. Il manufatto a base di uva Glera si è inoltre trasformato in un compagno a tutto pasto, soprattutto sulle tavole estive. Un prodotto che è anche storico, data la commercializzazione della bella variante ancestrale, rifermentata in bottiglia – in zona la chiamano ‘col fondo’ – che si consuma come vino da pasto fin dalla notte dei tempi.
TRA IMITAZIONI E CRITICHE
Ma accennavo alle complessità, non solo tecniche. Innanzitutto, come tutti i prodotti a rischio ‘italian sounding’, il Prosecco è una delle bevande più imitate al mondo. Ricorderete anche voi la commercializzazione di vino in lattina o alla spina a nome Semisecco o Whitesecco, che sicuramente, come conseguenza al danno economico, ha portato anche un correlato, forse più grave, danno di immagine. Oltre a questo, essere sotto gli occhi e sulla tavola di miliardi di persone in tutto il mondo porta con sé anche un corollario di critiche. L’ultima, in ordine di tempo, è quella del New York Times, che in un articolo a firma Rebekah Peppler, attaccava in particolare lo Spritz, definito un cocktail di pessima qualità, soprattutto a causa della infima qualità di Prosecco con cui viene realizzato. Affermazioni cui è difficile controbattere, anche per nostre esperienze dirette.
LA SFIDA DELLA QUALITÀ
Ecco, a mio avviso la sfida, come conferma anche la presa di posizione di alcune cantine importanti (Col Vetoràz è l’ultima della serie), si giocherà sul campo della qualità. L’estensione, forse eccessiva, della zona di produzione ha portato inevitabilmente alla commercializzazione di prodotti di bassa qualità, contribuendo ad ampliare la forbice qualitativa. Ricordiamo inoltre che si tratta di un prodotto venduto soprattutto all’estero – in Italia il Prosecco è appena al decimo posto tra i prodotti più consumati – quindi con minore possibilità di controllo, confermata dal calo della produzione di DOCG sul totale delle bottiglie prodotte. Eppure si tratta di un passaggio delicato e fondamentale. Il riconoscimento UNESCO è insieme una grande possibilità e un rischio. Essere sotto la lente di ingrandimento globale, inoltre come ambasciatori del gusto italiano nel mondo, è un’occasione troppo importante per perdersi in localismi o, peggio, in liti da bar. Per questo sono convinto che il futuro sarà roseo. In due parole, in Prosecco we trust.
Romagnolo verace, Luca Gardini inizia giovanissimo la sua carriera, divenendo Sommelier Professionista nel 2003 a soli 22 anni, per poi essere incoronato, già l’anno successivo, miglior Sommelier d’Italia e – nel 2010 – Miglior Sommelier del mondo.
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A cura di Matteo Cioffi
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