pubblici esercizi

15 Gennaio 2021

Siamo a terra! Il grido d’allarme dei pubblici esercizi

di Giulia Rebecca Giuliani


Siamo a terra! Il grido d’allarme dei pubblici esercizi

Centinaia di tovaglie stese a terra. Piatti, bicchieri e posate puntualmente disposti, seppur capovolti perché la ristorazione non è più in grado di “accogliere”. Migliaia di persone sedute sull’asfalto con in mano un cartello: “Baristi”, “Pasticceri”, “Made in Italy”, “Accoglienza”, “Catering”, “Responsabilità”, “Fuori casa”, “Intrattenimento”, solo per fare alcuni esempi. Se un alieno fosse atterrato in Italia il 28 ottobre, avrebbe scambiato il Paese per un gigantesco ristorante a cielo aperto, con 24 piazze allestite di tutto punto, da nord a sud. E invece è l’esatto contrario: il Covid e la seconda ondata di pandemia, hanno messo in ginocchio un settore strategico dell’economia nazionale, che sempre fa intrinsecamente parte del nostro stile di vita.

I decreti d’autunno approvati presidenza del Consiglio dei ministri lasciano un retrogusto piuttosto amaro. Dopo una primavera di saracinesche abbassate, infatti, i ristoratori e il mondo del catering hanno potuto rialzare la testa nei mesi estivi e, per farlo, sono state identificate una serie di regole sulle quali la Federazione ha collaborato con le autorità competenti per garantire la sicurezza sanitaria di avventori e lavoratori. Un invito accolto con entusiasmo dall’intera categoria, con gli imprenditori pronti a investire risorse proprie, nonostante l’azzeramento dei fatturati durante i mesi di lockdown, per poter ricominciare a lavorare e garantire un servizio fondamentale ai cittadini, mostrando di essere disposti a riaprire anche se le entrate non arrivavano neppure a coprire i costi sostenuti. A distanza di 3 mesi, tuttavia, gli ulteriori sacrifici fatti sono stati vanificati: nuove restrizioni, chiusure anticipate dei locali, stop a catering e matrimoni e nuovi incentivi allo smartworking. Il tutto nonostante il CTS, nelle proprie relazioni, abbia dichiarato che quei locali non sono cluster di contagio e in un’Italia orfana di turisti, con 37 milioni di visitatori stranieri in meno nel 2020, pari a un -58%.

[caption id="attachment_182699" align="alignnone" width="709"] #SiamoAterra l’hashtag scelto dagli organizzatori per trasmettere il senso di frustrazione che attanaglia gli imprenditori[/caption]

Troppo, anche per un settore abituato a lavorare e non a protestare. Il 28 ottobre il mondo del fuori casa guidato da Fipe-Confcommercio, la Federazione Italiana dei Pubblici Esercizi, ha dunque deciso di far sentire la propria voce, organizzando una manifestazione ordinata, pacifica e ricca di contenuti in 24 città italiane. #SiamoAterra l’hashtag scelto dagli organizzatori per trasmettere il senso di frustrazione e impotenza che in questo 2020 sta attanagliando gli imprenditori che nelle piazze, oltre ai loro valori e alla loro professionalità, hanno voluto portare anche i numeri della crisi: 300mila posti di lavoro a rischio, 50mila aziende che potrebbero chiudere entro fine 2020, 2,7 miliardi di euro bruciati solo per effetto del decreto di fine ottobre, ai quali vanno aggiunti altri 1,6 miliardi di consumi in meno, determinati dal DPCM del 3 novembre. “Noi oggi siamo a terra ma non ci arrendiamo – ha sottolineato il Presidente della Fipe-Confcommercio, Lino Enrico Stoppani dalla piazza di Milano –. Prima della pandemia davamo da mangiare a oltre 11 milioni di persone ogni giorno e vogliamo continuare a farlo. Oggi ci viene chiesto di sospendere la nostra attività per senso di responsabilità e per contribuire a ridurre l’impennata dei contagi. Noi siamo pronti a fare la nostra parte, pur sapendo che i nostri locali sono sicuri. Lo sappiamo perché lo dicono i dati e lo sappiamo perché nei mesi scorsi abbiamo investito tempo, risorse ed energie per renderli sicuri. Non siamo untori e rivendichiamo il diritto di lavorare”. Una speranza che non diventa, tuttavia, illusione: i ristoratori sanno bene che fino a quando la pandemia non sarà sotto controllo e il sistema sanitario del Paese non sarà in grado di far fronte ai picchi nei contagi, sarà impossibile un ritorno alla normalità. Ecco perché, a fianco delle rivendicazioni di breve periodo, primi tra tutti un’implementazione dei contributi a fondo perduto, da modulare sulla base dei cali dei fatturati degli ultimi 12 mesi, le richieste degli imprenditori si concentrano sul futuro.

Riduzione del costo del lavoro, esonero dal pagamento delle imposte comunali, Tosap, Cosap, TARI, fino a giugno 2021, incentivi governativi diretti ai proprietari degli immobili per favorire una riduzione dei canoni di locazione. E il blocco degli sfratti, anche per chi in questi mesi ha saltato qualche pagamento.

“Se vogliamo salvare le piccole imprese che sono l’anima del nostro Paese – ha spiegato il vice presidente vicario di Fipe-Confcommercio, Aldo Cursano, ristoratore fiorentino –, l’unico sistema è bloccare l’orologio dei costi di fronte alle entrate crollate e dare la possibilità di poter ripartire quando l’incubo sarà superato. Per poter vivere domani bisogna sopravvivere oggi. I cali di fatturato hanno toccato punte del 70-80%, ma i costi sono al 100%, non sta in piedi un modello così”.

Un concetto chiaro e semplice, alla portata anche del nostro alieno.

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