bevande
12 Agosto 2016Archiviato il 2015, l’anno della campagna di sensibilizzazione europea e di Expo, i riflettori sul tema dello spreco e delle eccedenze alimentari non si sono spenti, anzi. Le iniziative si moltiplicano in tutti i Paesi. E riguardano, anche, la ristorazione. L’ultima notizia viene dalla Francia dove i ristoranti con più di 150 coperti al giorno sono stati “fortemente consigliati” (ma non obbligati) dalla legge antispreco a fornire ai propri clienti una “doggy bag”, il contenitore per portare gli avanzi a casa, prontamente rinominata da alcuni ristoratori “gourmet bag”. Sarà anche l’effetto-Expo o lo spirito dei tempi, ma l’idea di 1,3 miliardi di tonnellate di cibo “buono” sprecate ogni anno nel mondo (un terzo di quello prodotto), che potrebbero sfamare quattro volte le persone denutrite del Pianeta, non piace a nessuno. In Italia le eccedenze alimentari (ciò che viene prodotto e distribuito ma resta invenduto) sono 5,59 milioni di tonnellate l’anno. Se il maggior responsabile è il settore primario (agricoltura e industria, per il 59%) seguito dal consumatore finale (43%), la ristorazione pesa 210mila tonnellate, il 7% del volume totale gestito (3 milioni di tonnellate). Di queste sono 5,21 milioni le tonnellate di cibo sprecato, non utilizzato cioè per il consumo umano. E la ristorazione è responsabile per 185 mila tonnellate. Dunque il problema va affrontato: lo chiedono alcuni clienti, sempre più sensibili alla questione, ma soprattutto lo richiede la buona gestione del ristorante, perché sprecare cibo significa anche, giocoforza, perdere denaro.
IL RIUSO, SOCIALE È MEGLIO
I modi di ridurre lo spreco sono tanti. Alimenti ancora perfettamente commestibili possono anche essere destinati all’alimentazione animale, al compost per la fertilizzazione dei terreni o alle biomasse per la produzione di energia. Ma se questo riduce effettivamente la produzione di rifiuti e di CO2, resta comunque uno “spreco” in termini sociali. E proprio in un’ottica “sociale” è stata sviluppata la ricerca del Politecnico di Milano con Fondazione Banco Alimentare Onlus e curata da Paola Garrone, Marco Melacini e Alessandro Perego. Obiettivo: facilitare il processo decisionale di un ristorante che vuole donare le eccedenze di cibo ad associazioni no-profit attive nel sociale. «Ci sono norme rigide che riguardano la donazione – spiega Francesca Vidali che ha collaborato alla ricerca –. Il processo deve essere molto rapido: l’alimento va donato entro 24 ore dalla preparazione. È necessario metterlo nell’abbattitore e poi conservarlo in celle frigorifere. Gli addetti dell’organizzazione no profit hanno il compito di controllare la temperatura del prodotto che viene poi riposto in vaschette sigillate e registrato. È quindi necessario disporre di macchinari che non sempre sono disponibili nei piccoli ristoranti privati. Abbiamo stimato che, in tutto, le operazioni di donazione “occupano” il ristoratore per un’ora a settimana. Non sono previsti sgravi fiscali, quindi non c’è un ritorno economico vero e proprio». La Rete Banco Alimentare, principale realtà italiana che conferisce gli alimenti raccolti ad oltre 8.900 associazioni che si occupano dell’assistenza diretta agli indigenti, ha raccolto dalla ristorazione in tutto il territorio nazionale 360 tonnellate di cibo nel 2011 e 476 tonnellate nel 2014. I ristoratori che sono già entrati nel “giro” della donazione lo fanno perché “a nessuno piace buttare cibo” spiega Vidali. Se comunicato al cliente poi, un’operazione di questo tipo può assicurare un ritorno di immagine non indifferente.
L’IMPORTANZA DEI PROCESSI
La riduzione dello spreco è dunque un valore sempre più condiviso. Non solo dai puristi dell’ecologico e del bio, come Silo a Brighton e Poco a Londra, che hanno ideato pratiche rigide ma efficaci per ridurre al minimo lo spreco. Tra queste, l’utilizzo di prodotti sfusi, direttamente dal produttore/contadino, la lavorazione in loco di birra e pane, i contenitori riutilizzabili per latte, birra e altri liquidi, l’acqua del rubinetto, servita in brocche e il compost per ciò che proprio non si riesce a riutilizzare. Da Poco a Londra la spazzatura viene addirittura pesata e analizzata tutti i giorni per capire come è possibile ridurla ulteriormente. «Noi in cucina sprechiamo pochissimo - spiega Cristina Borgherini della Trattoria Mirta di Milano - il menù cambia ogni giorno, facciamo forniture piccole e tutte le materie prime vengono riutilizzate. Se un piatto in menù finisce, lo segnaliamo ai clienti». È proprio il disallineamento fra quantità acquistata e venduta la principale causa dello spreco in cucina, anche perché è spesso difficile non solo gestire le fasce orarie di affluenza, ma anche prevedere quali piatti sceglieranno effettivamente i clienti. Secondo LeanPath, azienda americana che aiuta i ristoranti a gestire e limitare lo spreco alimentare, tra il 4 e il 10 per cento del cibo viene sprecato in cucina ancora prima di raggiungere la sala.
IL DESIGN SDOGANA LA DOGGY BAG
Se la gran parte degli sprechi avviene in cucina, non mancano gli scempi commessi in sala. L’usanza anglosassone di portarsi a casa gli avanzi in una poco felicemente denominata “doggy bag” (la “borsa per il cane”) inizia, con qualche resistenza (vedi box) a diffondersi anche da noi. Da qui il progetto di Comieco, il Consorzio Nazionale per il Recupero e il Riciclo degli Imballaggi Cellulosici “Doggy Bag - Se avanzo mangiatemi” per fornire, gratuitamente, a un centinaio di ristoratori tra Milano e Lombardia e Roma 15mila kit di contenitori “di design” per cibi e bevande avanzati. Realizzata in collaborazione con Slow Food Italia (che ha “procurato” i nominativi dei ristoranti) l’iniziativa ha coinvolto “nomi” importanti quali l’architetto/designer Michele De Lucchi e il professor Andrea Kerbaker, che hanno coordinato un team di architetti e illustratori chiamati a fare della doggy bag un “oggetto d’autore”. «Il progetto è nato per diffondere la mentalità dell’uso della doggy bag stimolando un cambio di mentalità nei ristoratori e nei clienti - spiega Carlo Montalbetti, direttore di Comieco -. Sappiamo che a settembre era stata utilizzata in media 2/3 volte a settimana, specie per il vino. Manterremo vivo l’osservatorio sull’utilizzo della doggy bag mentre Slow Food sta pensando di inserire nella sua guida ai ristoranti del 2017 un pittogramma che identifichi i ristoranti attrezzati. L’iniziativa è stata accolta molto bene, anche se, dalla ricerca che abbiamo svolto, alcuni ristoratori vedono la doggy bag come un fastidio. Eppure può diventare in certi casi un’opportunità di vendita». Come spiega Cristina Borgherini, “veterana” della doggy bag: «è usato molto di più il cartone per portare a casa il vino. Spesso chi prenderebbe solo un calice perché magari gli altri commensali non bevono cambia idea e prende la bottiglia, una volta saputo che può portarla a casa. Noi la proponiamo sempre ma il cliente in effetti non è pronto, la proposta spesso stupisce». Altra iniziativa è stata fatta in Veneto da Ministero dell’Ambiente, CONAI e i Consorzi Nazionali per il Riciclo degli imballaggi che hanno fornito una “family bag” ai ristoranti in vari materiali riciclati, dalla carta all’alluminio. «Penso che il ministero si impegnerà ancora in campagne di sensibilizzazione perché il tema è caldo» conclude Montalbetti. Più sensibilizzazione chiede Fabrizio Rauccio, socio del ristirante milanese UpCycle che ha partecipato al progetto di Comieco (nelle immagini in questo servizio, le varianti di doggy bag fatte progettare da Comieco da artisti e designer): «Il cliente non è pronto, non ci pensa, anche se ci hanno fornito dei totem da tavolo che spiegano la campagna e i contenitori sono molto belli difficilmente la gente si ferma a leggere, ci sono troppe informazioni nel locale tra menù, eventi ed altro. Occorrerebbe una campagna nazionale». Le iniziative si moltiplicano insomma, il seme è gettato, vedremo se nascerà un cambio di passo e di mentalità. Nel cliente, ma anche nel ristoratore.
I volumi dello spreco
Lo spreco alimentare in Italia
La tecnologia aiuta a gestire gli sprechi
Una delle cose che rendono più complicato il riutilizzo di alimenti pronti è la loro gestione degli scambi. Per questo sono nate varie app con l’obiettivo di far incontrare domanda e offerta. Tra queste, Myfoody, Equoevento e BringThe food coinvolgono anche i ristoratori. Lato cucina c’è invece la CLO’ey dell’australiana Closed Loop. Utilizzata dagli chef stellati René Redzepi del Noma e Alex Atala del DOM di São Paulo è una sorta di compost che utilizza il lavoro di un particolare tipo di microbi ed è in grado di ridurre gli scarti organici del 90% in 24 ore, producendo un ottimo concime (inodore). Ideale da utilizzare per il proprio orto interno...
Non buttare, porta a casa: la ricetta antispreco dei Fratelli la Bufala
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A cura di Matteo Cioffi
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