bevande
24 Ottobre 2013«Certo che hai ragione, ma al momento sbagliato», mi diceva un mio collega di lavoro. Pensavo fosse un’idiozia. La verità, per me, è una costante assoluta, ma con l’età credo non avesse tutti i torti. Voleva dire che per il manager preso dalla quotidianità, una previsione ha valore se si specificano luoghi e tempi precisi. Oggi so che il comparto delle birre ha un grande futuro. Tutto dipende però da quanto i retailer italiani si impegneranno a consolidarne la cultura di consumo. Il ruolo della ristorazione è sicuramente determinante per plasmare le tendenze, ma è il mass market che le irrobustisce. Così è accaduto negli USA. Così accadrà in Italia. Tutto dipende dalla capacità di promuovere il prodotto e la marca come e meglio di ciò che è stato fatto per il vino.
Gli italiani sono particolarmente predisposti verso la birra perché generalmente amano “to graze on variety”, cioè esplorare gli assortimenti molto profondi. L’antropologia alimentare lo spiega chiaramente: quando un popolo non ha una consolidata tradizione di consumo è aperto all’esplorazione di tutto ciò che offre il mercato internazionale. Infatti, non è legato a stereotipi abitudinari. Non ha propri valori da difendere. Non ha codificato ciò che è buono e quel che non lo è. Se noi italiani andiamo fieri delle nostre paste, dei formaggi, dei vini, ... non ci accaloriamo se tedeschi e irlandesi rivendicano birre migliori delle nostre. Come nel caso del whisky o in quello più recente del rhum eravamo molto ignoranti, ma ci siamo dotati di nuove, dettagliate competenze secondo processi già decodificati dalla ricerca di mercato.
I vantaggi della birra
La birra sfrutterà i suoi notevoli vantaggi sul vino. Primo, il suo range alcolico spazia dai 3° di una bitter inglese ai 17° di una World Wide Stout e soddisfa preferenze e occasioni di consumo oltremodo diversificate. Secondo, il suo profilo sensoriale è decisamente più ampio in termini di sentori e aromi. Terzo: la sua adattabilità ai pasti e soprattutto al fuoripasto è di molto superiore a quella di altre bevande. Basti pensare che, in barba ai precetti mediterranei, la birra è divenuta la bevanda elettiva della pizza, il piatto più amato dagli italiani (oltre che dei dilaganti hamburger e kebap). Quarto: lo spread del suo prezzo verso l’alto è più contenuto. Quinto: l’offerta internazionale è (in prospettiva) immensamente più ampia. Non v’è nazione (a parte quelle islamiche integraliste) che non produca proprie birre.
In questo senso la logica futura dell’assortimento profondo dei supermercati deve essere vista nel suo divenire di medio periodo e non come soluzione per domani. È indubbio però che, nonostante i recenti progressi, i buyer e i repartisti della distribuzione moderna italiana hanno ancora difficoltà a destreggiarsi tra stili, gradazioni e abbinamenti. Ne discendono scaffali del tutto caotici che mischiano stout e weissbier, abbaye e lambic: esposizioni che deludono la nutrita schiera di nuovi appassionati e non incuriosiscono i neofiti. Tuttavia le birre “speciali” (il nome denota le difficoltà nel trattarle!) conquistano spazio.
Quindici anni fa in un dibattito televisivo, obiettavo ad un manager di un’azienda leader per il quale le birre speciali valevano lo zero virgola di quota di mercato ciascuna, che zero virgola moltiplicato per alcune centinaia sarebbe diventato comunque un numero interessante. Era un’anticipazione della teoria della “coda lunga” per cui una parte consistente delle vendite (e soprattutto dei profitti) si realizza attraverso tanti piccoli acquisti saltuari di clienti diversi. “Asciugare” l’assortimento tenendo solo le referenze alto vendenti (massacrate dalle promozioni di prezzo) non paga. Significa perdere vendite e soprattutto margini. Alcuni amici, distributori reduci dai nostri viaggi negli USA, hanno aumentato a 250 le referenze dei loro supermercati. Le vendite sono aumentate apprezzabilmente e si sono in parte destagionalizzate. Sono decisamente migliorati invece i margini, poiché, distribuendosi secondo la classica curva log-normale, la coda lunga delle “speciali” si è rivelata la parte più “polposa”.
Esempi americani
Certo, in tema di assortimento siamo ancora lontani dalla realtà americana dove, ad esempio, Wegmans, nel suo ultimo store di King of Prussia (Philadelphia), esibisce un reparto a se stante con circa 1200 birre, e dove Jungle Jim a Cincinnati (OH) opera sulle medesime dimensioni. Eppure siamo ancor più lontani dalle oltre 3000 SKU della catena specializzata BevMo localizzata in California e Nevada. Gli Americani, insaziabili in tema di suggestioni assortimentali rappresentano certamente l’ideal-tipo dei consumatori di birra. Ad esso tenderanno anche gli italiani, ma ciò che conta davvero è la “capacità di vendere” così diffusa oltreoceano.
Dorothy Lane Market, un retailer di Dayton (OH) non solo elenca le sue centinaia di birre provenienti da tutto il mondo, ma oltre a organizzare diversi eventi (come l’Oktober Fest e il suo corollario birre artigianali provenienti direttamente da Monaco!) fornisce guide e corsi per abbinare correttamente birre e alimenti, poiché, ancor più del vino è con una giusta coniugazione dei sapori che si esprime la sorpresa e il piacere del palato. Egualmente Draeger’s (Baia di San Francisco) offre a rotazione rigorose sessioni di In-Store Beer Tasting, a cui si deve accedere senza fumare, cospargersi di profumi e lozioni e con i cellulari spenti!
Altra case history notevole è quella di Central Market (HEB) catena texana specializzata nell’alimentare e nota per i suoi assortimenti sterminati, indispensabili in quel difficilissimo mercato. Nell’area di Dallas/Fort Worth, ad esempio, Central Market deve confrontarsi con punti di vendita specializzati come Las Colinas o Lone Star Beverages che, mediamente, non solo detengono a scaffale 900-1000 birre, ma si impegnano a procurare qualunque birra venga richiesta dal cliente e non figuri nella loro lista. Central Market organizza pertanto, tra le tante iniziative, Brewtopia, un festival di due settimane, in cui non solo vengono presentate e spiegate (!) le birre più esotiche e rare, ma anche i più sofisticati Food Pairing con cioccolato, dessert, formaggi, ecc.
[caption id="attachment_12341" align="aligncenter" width="300"] La birreria interna wholefoods in Columbus Circle NYC[/caption]
La valorizzazione dei micro birrifici
Ovvio che in questo contesto tutta la crescente produzione delle micro-breweries ne risulta fortemente valorizzata proprio grazie alla canalizzazione nel mass-market. Questa strategia appartiene in particolare al mondo dei retailer indipendenti che come Nugget Market (CA), Kowalski’s e Beyerly’s (MN), Dierbergs (MO) fanno del localismo un loro punto di forza. Un approccio particolare è poi quello del grande innovatore Wholefoods. A causa delle diverse legislazioni dei vari stati dell’Unione che in certi casi vietano la vendita di alcolici nei supermercati (ed è il caso di New York!), ma non la somministrazione agli adulti, Wholefoods ha aperto una birreria chiusa nel punto di vendita. La location di Columbus Circus (NYC) si propone allora come luogo in cui “allegri rivoluzionari” si dedicano a liberare il mondo dalle catene di “birre noiose” proponendo l’“avventura” di una degustazione di birre sempre nuove.
D’altra parte la cultura birraria si fonde sempre meglio con la cultura popolare grazie allo sviluppo impressionante di innumerevoli siti Internet con relative newletter e blog. Ratebeer, Beeradvocate, Beer Geek Nation, ecc. ispezionano e valutano sistematicamente luoghi di consumo e di vendita, passando in rassegna ovviamente anche le più diverse marche locali, nazionali e internazionali.
Così facendo alimentano una benefica concorrenza che gratifica ogni giorno di più un numero sempre più vasto di consumatori. Concludendo, la tendenza è certamente verso la gestione di una maggiore varietà e per questo il futuro del comparto birrario Italiano, come le realtà di riferimento menzionate, è nelle mani di un numero crescente di operatori appassionati. Ciascuno nel proprio indotto sarà in grado di mettere il pratica un nuovo principio generale secondo il quale “è l’offerta a creare la domanda e non viceversa”.
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