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28 Agosto 2018Non è una cucina per donne. Quanto meno se parliamo di chef, i capi della brigata (linguaggio militaresco introdotto da un uomo, Auguste Escoffier). Le donne sono il 4% degli stellati al mondo, con il “record” italiano di 45 su 343, il 7,2%. Ma qualcosa sta cambiando ai fornelli. Un segnale viene dai premi come il ‘Chef donna Michelin’ e il ‘Best Female Chef’ dei 50 Best Restaurants. Abbiamo chiesto ad alcune protagoniste della ristorazione nazionale di raccontarci le loro cucine. E abbiamo deciso di partire da una delle più giovani ‘stellate’ Michelin, Caterina Ceraudo.
GIOVANE PROMESSA Trent’anni e anima del Dattilo, ristorante in un frantoio del Seicento nell’azienda agricola biologica di famiglia a Strongoli (KR), si è guadagnata la prima edizione del premio, nel 2017: “Un’emozione unica, ma subito mi sono interrogata sul perché avevo vinto e mi è venuta voglia di migliorare ancora. Certamente ha amplificato la fama del ristorante ma anche le aspettative dei clienti. È un premio positivo perché in questo momento per le chef donne è difficile. Si dice che sia un lavoro impegnativo ma penso che oggi sia vero di qualsiasi lavoro, ci sono donne manager che stanno 12 ore in ufficio, donne medico, ma una donna a capo di una cucina è ancora un’eccezione: credo sia un problema di mentalità”.
Caterina dopo la laurea a Pisa in enologia è tornata a casa, nel ristorante stellato dell’azienda di famiglia. “Volevo rimanere nel mio territorio, dare un contributo importante”. Dopo un’esperienza nella scuola di Niko Romito “per sapere cosa c’è nel mondo dell’enogastronomia a 360 gradi” prende le redini della cucina: “e c’era la stella da mantenere. Dopo pochi mesi è stata riconfermata. Sono entrata in punta di piedi, dovevo capire e apprendere ma poi ho cambiato tutto, la mia è una cucina che parla degli ingredienti. Bisogna sognare e avere coraggio”. Difficoltà? “Convincere i miei, in particolare mio padre, a darmi fiducia”. In cucina? “Per acquisire la leadership non è necessario alzare la voce ma dare l’esempio, fare capire che il lavoro può essere svolto in maniera divertente anche se seria. E fare gruppo, perché ognuno all’interno del ristorante è fondamentale per il servizio. L’armonia fa parte del rispetto per la materia prima, che passa dalle mani di tutti, anche se per poco”.
[caption id="attachment_149446" align="alignright" width="298"] Viviana Varese[/caption]
NUOVA ARIA IN CUCINA Una donna al comando: un tema in tutte le professioni, ma esiste un modo “femminile” di gestire la brigata? “Si è visto che le cucine miste sono più creative, la diversità è un punto di forza. Io ho donne, gay, stranieri, la mia cucina è un melting pot, una scuola di vita per i giovani che arrivano. La mattina ascoltano musica, c’è serietà, concentrazione ma nessun pregiudizio. Le donne che devono lavorare in cucine per il 95% maschili subiscono ogni tipo di angherie, devono vestirsi da uomo per non avere problemi, vengono verbalmente abusate” dice Viviana Varese di Alice (Milano).
[caption id="attachment_149447" align="alignleft" width="269"] Antonia Klugmann[/caption]
Tutte unanimi nel sostenere invece che una “mano” femminile non esiste. “Vivo la cucina come un grande luogo di libertà. L’ospite di un ristorante molto spesso non vede chi cucina. Il cuoco può essere alto, basso, bello, brutto, simpatico, antipatico, uomo o donna. L’unica cosa che conta è se un piatto è buono oppure no” sostiene Antonia Klugmann, fresca dalla grande rinuncia a un’altra edizione di Master Chef dal suo ristorante l’Argine di Vencò. “La differenza sostanziale è che una donna se si dedica alla carriera deve fare delle rinunce. Essere a capo di una cucina è un lavoro che mette alla prova fisicamente, si sta ore in piedi, ed è difficile gestire una famiglia” dice Rosanna Marziale, stellata de Le Colonne di Caserta.
[caption id="attachment_149448" align="alignright" width="281"] Cristina Bowerman[/caption]
UN AFFARE DI FAMIGLIA Luci e ombre dunque, ma come mai in Italia, Paese che non brilla per la parità di genere, ci sono più stellate del resto del mondo? “Sono quasi tutte in ristoranti di famiglia, nemmeno una è assunta da un albergo o da investitori che consentono di creare un brand (Romito, Bertolini), perché si dà per scontato che una donna non abbia competenze manageriali. Quando invece il primo chef a ottenere tre stelle è stata una donna, la Mère Brazier, maestra di Paul Bocuse” dice Varese. “Per avere lo stesso risultato una donna deve lavorare il triplo – dice Cristina Bowerman – e aspettarsi molte più critiche. Il maschilismo c’è ovunque, rispetto agli altri Paesi però in Italia manca la possibilità di difendersi dai piccoli grandi soprusi, sul lavoro e non. Negli USA se chiedi aiuto di solito vieni ascoltata, non ridicolizzata. E poi è necessario fare gruppo, tra donne, come dimostra la campagna #Metoo: nel momento in cui le donne si uniscono possono mettere in ginocchio i mostri sacri. E questo vale in ogni campo. Le cose stanno iniziando a cambiare ma le prime che devono imparare a fare rete sono le donne, sapere che abbiamo diritto a scelte e opportunità, ma senza esclusioni di sorta”.
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A cura di Matteo Cioffi
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