24 Agosto 2016
Non esiste un solo Parmigiano Reggiano, ma il capolavoro caseario come lo conosciamo noi è frutto dell’unione di tante identità, tanti modi di interpretare (pur nel rigido solco del disciplinare della Dop) questo formaggio, di una tradizione che si è radicata e stratificata nei secoli (le prime tracce della produzione di formaggio vaccino in val d’Enza, tra Parma e Reggio Emilia risalgono al decimo secolo). Così, i 350 produttori sparsi nella zona d’origine (province di Parma, Reggio Emilia, Modena e piccole porzioni di Mantova e Bologna) realizzano oltre 3 milioni di forme l’anno, circa il 68% venduto sul mercato nazionale e il 32% esportato, infondendo una grande quantità di lavoro manuale giornaliero e mettendo nel formaggio la propria esperienza, i propri valori, quanto appreso in ambito famigliare o locale. Perché, parafrasando un riuscito slogan pubblicitario coniato qualche anno fa, il parmigiano Reggiano non si fabbrica, alludendo all’industrializzazione del processo, bensì si fa, così come i casari l’hanno fatto per secoli.
[caption id="attachment_104490" align="alignleft" width="300"] La zona di produzione del Parmigiano Reggiano, il formaggio Dop più consumato al mondo[/caption]
IDENTITÀ VS MASSIFICAZIONE
«In tempi nei quali la massificazione, anche del cibo, è un pericolo serio – dichiara Riccardo Deserti, direttore del Consorzio del Parmigiano Reggiano – che richiama a scenari nei quali non esiste più un legame tra territorio, conoscenze umane e prodotti che finiscono in tavola, recuperare la propria identità è un processo che tende all’eccellenza. Per noi, significa valorizzare il duro e oscuro lavoro di tanti produttori, le loro storie, la loro attenzione alla qualità». Con questo scopo il Consorzio del Parmigiano Reggiano ha organizzato presso il Labirinto della Masone di Fontanellato (Pr), il più esteso d’Europa realizzato dall’editore e collezionista d’arte parmense Franco Maria Ricci, un incontro tra i vari soggetti della filiera, radunando una rappresentanza di 30 caseifici che si distinguono per le loro particolari politiche produttive. Dai caseifici biologici a quello kasher, da chi usa latte da razze antiche (bruna a Parma; rossa a Reggio Emilia; bianca a Modena) a chi stagiona oltre 100 mesi, in un mosaico che lascia intendere come dietro il marchio unitario esista una ricchezza nella produzione che pochi altri prodotti alimentari tutelati possono vantare
ADOTTA UN CASEIFICIO
«Abbiamo la precisa volontà – prosegue Deserti – di far evolvere la tradizionale figura del casaro in un operatore di filiera in grado di parlare direttamente con gli chef, per esempio. In periodi nei quali il cliente di un ristorante di livello vuole conoscere la provenienza delle materie prime, avere il Parmigiano Reggiano da questo o quel caseificio significa poter contare su un prodotto che ha un profilo aromatico e sensoriale peculiare e che può raccontare una storia, in alcuni casi secolare, elemento molto apprezzato dai consumatori in Italia e all’estero. Credo che “adottare un caseificio” da parte di un ristorante sia un’attenzione maggiore nei confronti del cliente che sa più informazioni su cosa sta mangiando, ma anche una possibilità concreta per i caseifici di vedere corrisposto il loro lavoro, soprattutto in una congiuntura economica nella quale le quotazioni del parmigiano Reggiano subiscono tensioni al ribasso».
TRADIZIONE IN EVOLUZIONE
Tra i caseifici ospiti della Parmigiano Reggiano Identity, il Caseificio Zocca di Modena, in attività dal 1966, che trasforma il latte proveniente da capi di Bianca Modenese, una razza tradizionale oggi limitata a poche centinaia di unità suddivise in una ventina di allevamenti di piccole dimensioni. La peculiarità di questa materia prima è la ricchezza di kcaseina, una proteina che rende il Parmigiano Reggiano adatto a una lunga stagionatura. All’opposto, il Caseificio Bertinelli, nel parmense, che spinge sul pedale dell’innovazione e realizza il primo Parmigiano- Reggiano kosher, che ha suscitato un grande interesse soprattutto sui mercati internazionali. In attività dal 1959 il Caseificio Sant’Anna di Anzola dell’Emilia (Bo) dagli anni ’90 realizza Parmigiano Reggiano Bio, partendo dai propri foraggi in un’ottica “a ciclo chiuso”, oppure il caseificio Scalabrini dal 1940 a Ghiardo di Bibbiano (Re) che produce Parmigiano da vacche rosse reggiane e attinge l’energia elettrica da due impianti fotovoltaici per complessivi 120 Kw/h. Perché rispettare la tradizione non è solo scimmiottare il passato, ma guardare al futuro tenendo ferma la barra dei valori e della qualità del prodotto.
Parmigiano Reggiano: tre “bollini” per scegliere bene
La ricetta: pasta tiepida alle erbe con topinambur su insalata primaverile
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