25 Agosto 2016
Tagliare le tagliatelle con il machete. Non è l’ultima frontiera della spettacolarizzazione in cucina, tra improbabili situazionismi mediatici, isole di pseudo naufraghi o cuochi alla disperata ricerca di un’identità che buchi “lo schermo”. È una situazione reale, nella quale Aurora Mazzucchelli, chef del Ristorante Marconi di Bologna, si è venuta a trovare durante i suoi viaggi in Ruanda, paese martoriato da una guerra civile sfociata in un terribile genocidio, oggi avviato verso un difficile futuro di pace, tra strascichi del conflitto e gli ormai cronici effetti di una povertà diffusa.
Un parallelo simbolico, nato dalla voglia di avvicinare due mondi così distanti, l’Emilia e la sua famosa pasta all’uovo e il paese dell’Africa centrale, spinto, tuttavia, dalla necessità di improvvisare una cena “all’italiana” senza avere gli strumenti necessari sottomano: «Semplicemente non c’erano coltelli adatti allo scopo – spiega candidamente Aurora – quindi il machete era l’unica opzione. E poi ripensando a questa cosa mi ha fatto piacere riflettere sul fatto che lo strumento con il quale centinaia di migliaia di persone sono state trucidate o mutilate, servisse stavolta per fare del bene, per cucinare, per regalare un sorriso e un momento di condivisione ai commensali».
Un’esperienza, quella di Mazzucchelli, nata sull’onda dell’aiuto economico dato a un orfanotrofio ruandese, che lungi dall’essere un contentino per lavarsi la coscienza, un’operazione di soul washing, è stato un trampolino di lancio verso la realtà di quest’angolo d’Africa capace, quasi allo stesso tempo, di esprimere sofferenza e speranza, in un mix che lascia il segno nel cuore. E che, da noi occidentali, è definito “mal d’Africa”. «Ho sempre pensato – dichiara – di volere dare una mano, così come mi è stato insegnato dai miei genitori, lavoratori con testa sulle spalle e una forte etica a guidare le scelte. Così, dopo aver sostenuto economicamente questo progetto, ho deciso di recarmi in loco, compatibilmente con i miei tanti impegni, per vedere con i miei occhi, per capire di più quella realtà, spinta da una curiosità e da un bisogno di apprendere che guida tutta la mia vita e la mia esperienza professionale».
Qualcuno, tuttavia, potrebbe obiettare che i vostri mondi sono in antitesi: da un lato l’alta cucina, il lusso, i pasti da centinaia di euro; dall’altro le persone che fanno fatica a trovare da mangiare tutti i giorni…
Questo è un pensiero che mi accompagna sempre: come fare convivere questi due mondi, ossia la cucina di coscienza, quella curata nei dettagli, e la solidarietà verso chi ha fame. Spesso il nostro settore è associato allo spreco, ai costi superflui per ottenere materie prime strane ed esotiche, quindi certo non è il migliore ambasciatore per la lotta alla fame e alla povertà nel mondo. Tuttavia, credo che anche in molti colleghi stia nascendo un nuovo modo di vivere la professione, con la ricerca del bello che non si coniuga più solo tra sfarzo e opulenza, ma che nasce da una ricerca di rispetto. Si può fare un grande piatto anche con ingredienti umili se li si rispetta, anche con gli avanzi, magari facendo leva sulla propria vena estetica e infondendo tanto di sé nel piatto.
Qual è il lascito di iniziative di solidarietà come quelle che lei sta vivendo? Ritiene che anche il processo creativo di un piatto sia influenzato da queste esperienze?
Sì, senza dubbio. Anche se, in questo caso, l’influenza è più sul versante umano che su quello delle tradizioni gastronomiche vere e proprie. In Ruanda, come in quasi tutti i paesi alle prese con una grave e prolungata povertà, la cucina è fondata su pochi prodotti locali, essenzialmente cereali, patate e legumi. Sostanziosi e riempipancia, un po’ come la polenta ha rappresentato l’alimentazione nelle nostre campagne povere per secoli. Quindi è difficile avere influenze, suggestioni da trasferire alle proprie creazioni. Viceversa, sotto il profilo umano, vedere queste situazioni, nelle quali quotidianamente non è ammesso alcun volo pindarico e il cibo a disposizione è estremamente rispettato e non sprecato, di certo cambia un po’ il modo di vedere le cose, anche al ritorno in Italia.
In questi ultimi anni gli chef hanno occupato il centro della scena mediatica, un po’ come le rockstar negli anni ’90. Come giudica questo fenomeno?
Uno chef non può salvare il mondo. Questo è il punto di partenza del mio giudizio su questo aspetto. Ma, certo, la presa sull’opinione pubblica può servire a fare passare un messaggio che non sia solo edonistico ma faccia riflettere sulla condizione di una parte del mondo. Gli chef del nostro tempo devono sapere coniugare molti piani di lavoro e sintetizzarli in un’unica opera. L’aspetto più importante è, senza dubbio, una forte etica professionale, indirizzata al rispetto e all’equilibrio. Lo chef deve prendere delle scelte secondo la propria responsabilità, ma può anche veicolare un messaggio positivo nei confronti della società, in particolare verso i più giovani.
Per finire, qual è la cosa che, secondo la sua esperienza, noi occidentali possiamo imparare dagli abitanti dei paesi in via di sviluppo?
Nel rapporto con il cibo dei ruandesi, mi ha colpito la naturalità. Noi viviamo in una società nella quale la naturalità è un plus che deve essere pagato, in certi paesi è la povertà che inibisce le sofisticazioni. In agricoltura e in cucina tutto è naturale, senza l’uso di chimica. Tuttavia, anche questo sta cambiando rapidamente e, anche loro, sono tentati dall’agricoltura industriale per massimizzare le rese. Invece, dovrebbero capitalizzare la loro naturalità come elemento di diversità rispetto all’Occidente. E tutelare la loro incredibile biodiversità dall’incubo della monocoltura.
Il profilo: Aurora Mazzucchelli del ristorante Marconi, una stella Michelin
Aurora Mazzucchelli ha respirato fin da piccola i profumi della cucina bolognese nella cucina dei suoi genitori. Oggi, dopo un lungo percorso da autodidatta, dà forma alle sue creazioni nella cucina del ristorante Marconi, una ventina di chilometri dal centro di Bologna, sui primi contrafforti dell’Appennino. Coaudivata dal fratello Massimo, la chef trae linfa dal territorio, ma si allontana dai tipici cliché emiliani, lavorando per sottrazione e ricercando una strada nuova tra texture e riletture personali. Stella Michelin nel 2008, riconoscimenti dalle principali guide gastronomiche d’Italia, nel 2012 Aurora Mazzucchelli è stata nominata “Migliore chef d’Italia” dalla guida Identità Golose.
La ricetta di Aurora Mazzucchelli: animelle, noce moscata e cardi
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