ricerche
17 Ottobre 2016di Sabina Rubini
Biologa – Esperta in Sicurezza degli Alimenti
Studio ABR www.alimentiesicurezza.it
Mal di testa, nausea, crampi allo stomaco, eruzioni cutanee. A molti sarà capitato di bere vino, risentendo dopo un po’ (se non il giorno dopo) di malesseri fisici. Facile pensare di essere intolleranti o astemi o collegare gli effetti negativi ad un vino carico di solfiti. Ma la verità è un’altra. E allora da cosa può eventualmente dipendere la tanto temuta emicrania e altri malesseri? Una spiegazione ci sarebbe e potrebbe ricondurre alla produzione delle ammine biogene (AB), sostanze che si creano nella fase di vinificazione ottenute da cicli/processi biologici ad opera di batteri lattici presenti nel mosto e nel vino, in grado di produrre appunto composti che esercitano effetti negativi sulla salute dell’uomo. Le AB sono composti azotati derivanti (mediante decarbossilazione) da specifici amminoacidi che possono trovarsi in molteplici alimenti quali pesce, vegetali, formaggi e prodotti carne con concentrazioni che risultano anche superiori alle quantità riscontrate nel vino. Essendo queste, delle sostanze biologicamente attive nell’organismo umano ed indispensabili oltretutto per svolgere importanti funzioni fisiologiche, nella maggior parte dei casi tendono a non causare effetti negativi.
Tuttavia, se ingerite in concentrazione troppo elevate o nel caso in cui l’azione detossificante dell’organismo venga inibita per la presenza di etanolo o farmaci, possono manifestarsi vari effetti tossici e reazioni allergiche, legate naturalmente alla tipologia di ammine biogene entrate in gioco oltre che dalla suscettibilità del soggetto. Le ammine biogene dotate di maggiore tossicità che si ritrovano nel vino sono: istamina, capace di indurre nell’uomo mal di testa, eruzione cutanee, nausea, vomito, crampi addominali, crisi respiratorie, ecc; la tiramina, capace di indurre mal di testa, salivazione, problemi respiratori, crisi ipertensive (cheese reaction), ecc; putrescina, feniletilamina e cadaverina che hanno la capacità di potenziare gli effetti delle prime due. Il livello delle ammine biogene può variare nel vino a causa di diversi fattori che sono i batteri lattici con capacità decarbossilasi e nelle fasi iniziali di lavorazione la quantità di amminoacidi precursori, quest’ultima influenzata a sua volta dalla composizione del mosto e dal tipo di vinificazione, che comprende tra i diversi fattori la presenza di anidride solforosa e il pH che andranno ad influenzare la tipologia e l’entità delle popolazioni microbiche e le loro attività metaboliche.
Certo è che se durante il trascorrere di una piacevole serata, un soggetto suscettibile a tali sostanze tende a consumare vino associato ad alimenti contenenti tali ammine, per un effetto di accumulo si potrebbe avere una possibilità di star male con varie complicazioni sul nostro organismo! Effettivamente, nonostante la presenza delle ammine biogene sia un fenomeno ormai diffuso, non esiste tuttora una legislazione che fissi dei valori limite per queste sostanze, anche se alcuni Paesi europei hanno deciso di raccomandare ad esempio per l’istamina nei vini, dei valori massimi compresi tra i 2 ed i 10 mg/l a seconda dei Paesi. Inoltre, l’importanza che questo tipo di problematica sta raggiungendo ha portato nel 2011 l’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino (OIV) ad adottare un “Codice delle corrette pratiche vitivinicole atte a limitare al massimo la presenza delle ammine biogene nei vini”, in grado di stabilire le corrette misure da applicare nei vigneti e nelle cantine, contribuendo così alla riduzione dei rischi legati alla presenza di ammine biogene nei prodotti finali.
I solfiti, vantaggi e svantaggi - Per chi non rispolvera da un po’ i concetti legati al processo di vinificazione, ricordiamo che il ricorso alla anidride solforosa (SO2, anche detto diossido di zolfo o biossido di zolfo) è una pratica essenziale nella vinificazione e nella conservazione del vino, per il quale ancora oggi non si è riusciti a trovare un sostituto. E lo sapevano bene gli olandesi, ai quali si deve la scoperta della stabilizzazione dei vini bianchi (che prima potevano essere trasportati solo nelle stagioni fredde o solo se fortificati), mediante la bruciatura di uno stoppino contenente zolfo all’interno di una botte di media capacità. Proprio con tale pratica (che venne ben presto utilizzata ovunque), infatti, si ottenne in maniera primordiale la formazione di anidride solforosa che una volta attaccatasi alle pareti delle botti risultò, per l’epoca, un ottimo conservante per il vino, finalmente capace di affrontare così lunghe traversate. Anche attualmente i vini che presentano un quantitativo di anidride solforosa più alto sono generalmente i vini bianchi, soprattutto nel caso di vini più delicati o dei passiti, nei quali l’impiego di questa sostanza viene utilizzato a protezione del colore o per evitare eventuali rifermentazioni, la cui presenza in eccesso però all’olfatto di un intenditore risulta inconfondibile.
C’è da dire che la maggior parte dell’anidride solforosa (SO2) presente nel mosto e nei vini è aggiunto nel corso delle varie fasi vitivinicole risultando così, durante tutto il percorso lavorativo, in parte legato alle molecole di acqua ed in parte sotto forma libera come bisolfito (HSO-3). L’anidride solforosa che viene aggiunta al mosto, ne favorisce la fermentazione alcolica andando a svolgere in tale fase una azione antisettica selettiva inibente lo sviluppo di batteri e lieviti dannosi, a favore di quelli sani (utili a completare la fase chimica), mentre ad esempio durante la fase di affinamento (o maturazione), la stessa sostanza, contribuisce con una azione antimicrobica alla conservazione delle caratteristiche organolettiche del vino, impedendone in tal modo la formazione di batteri acetici (nocivi) e permettendo di ottenere prodotti più sani e serbevoli. Proprio per i molteplici benefici che si possono addurre a favore dell’anidride solforosa si comprende bene perché in passato si sia un po’ ecceduto nell’uso di tale additivo, tanto da portare in alcuni casi alla creazione di prodotti che, il giorno dopo il consumo, venivano ricordati per il cerchio alla testa ed in alcuni casi anche per la presenza di disturbi intestinali nei malcapitati consumatori.
È importante dire, però, che i solfiti durante le pratiche vitivinicole non vengono aggiunti solo artificialmente, ma una parte di essi li si ottiene per produzione naturale durante la fermentazione alcolica, nel passaggio cioè dal “succo d’uva” al vino, ad opera di alcune tipologie di lieviti. Una quantità certamente non sufficiente in ogni caso, a garantire né la conservazione del gusto e del sapore del vino, né tanto meno l’eventuale proliferazione di batteri dannosi, ragion per cui si ha la necessità, come accennato precedentemente, di aggiungere SO2 già all’arrivo delle uve in cantina. Proprio per tale motivo allora dovrebbero stare attenti i soggetti fortemente suscettibili ai solfiti, che per evitare il consumo di questi additivi preferiscono al consumo di vino convenzionale, quello biologico per il quale la nuova normativa Reg. CE n. 203 del 2012 prevede delle quantità massime di ammesse di solfito pari a 100mg/l per i vini rossi e 150 mg/l per vini bianchi e rosati, con la possibilità di aumentare in tutti i casi di 30 mg/l se il vino ha più di 2 grammi di zucchero residuo. La legislazione Europea in tema di uso dei solfiti negli alimenti, compreso il vino, considera queste sostanze degli “allergeni” (Reg. UE n. 1169/2011) dicitura che in realtà viene data solo per semplificare la classificazione normativa, come dichiarato ufficialmente dall’EUFIC (European Food Information Council), infatti, i solfiti o diossido di zolfo (secondo quanto riportato da tale organizzazione scientifica di informazione sulla sicurezza e qualità alimentare oltre che sulla salute e nutrizione) non determinano reazioni immuni mediante anticorpi IgE e pertanto non causano possibili shock anafilattici o altri effetti gravi tipici degli allergeni.
Studi sulla tossicità acuta e cronica dell’SO2 hanno in effetti evidenziato che solo il consumo di dosi particolarmente elevate può causare sintomi rilevanti in soggetti sani, mentre i normali effetti collaterali consistono in mal di testa, orticaria, rinite, distruzione della vit. B1 o tiamina, a differenza però di ciò che può scatenarsi negli individui asmatici, per i quali l’ingestione di una tale sostanza può dare manifestazioni più acute, oltre che il fiato corto, il respiro affannoso e la tosse. Per evitare problemi ai consumatori la legislazione ha posto quindi dei limiti quantitativi massimi di solfiti nei vini che secondo quanto stabilito dall’Unione Europea con il Reg. CE n. 606/2009, non deve superare i 150 mg/l per i vini rossi e i 200 mg/l per i vini bianchi e rosati (con le dovute eccezioni), oltre all’obbligo di riportare in etichetta la dicitura “contiene solfiti” (oppure anidride solforosa o diossido di zolfo) nel caso in cui ci si trovi in presenza di un vino con un contenuto di SO2 superiore ai 10mg/l. Rimane ancora facoltativo invece apporre il logo specifico con la dicitura “Allergy Information SO2”.
Tuttavia, non tutti gli autori concordano sulle evidenze scientifiche che mettono in relazione la presenza di anidride solforosa all’insorgenza dell’emicrania, adducendo come contro risposta, che se ciò è vero, ci debba anche essere una correlazione tra l’emicrania ed il consumo di prodotti come gli insaccati, i formaggi e più in generale di tutti quegli alimenti e quei prodotti alimentari che sono fermentati. L’anidride solforosa ed i suoi derivati difatti vengono utilizzati dall’industria alimentare non altro che come degli additivi (E220 e E226) per le loro proprietà antimicrobiche, antifungine, antiossidanti, oltre ad agire contro l’imbrunimento enzimatico ed ossidativo, ed è proprio per questi suoi molteplici benefici che nelle imprese agroalimentari viene impiegata in numerosi prodotti come la carne, il pesce, i crostacei, i molluschi, i formaggi, la frutta secca, le conserva di pomodoro e le bevande.
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